Non a qualunque costo, non in qualunque modo. È verissimo: votare ora significherebbe regalare a Salvini un consenso inerziale che ha già cominciato lentamente a perdere e che qualche mese lontano dal Viminale (dove mai sarebbe dovuto arrivare) potrà erodere decisivamente. Ma solo se chi governerà al suo posto lo farà meglio di lui: cioè producendo giustizia sociale. Dunque, non un governo qualsiasi, ma un buon governo.
Il primo requisito sembra incompatibile con la perentoria richiesta di avere un nome e un programma “entro martedì”. La possibile intesa tra Movimento 5 Stelle e Partito democratico non è, infatti, una soluzione d’emergenza, ma l’unica soluzione possibile, anche dopo le elezioni (l’altra è un governo Salvini). Quindi, non si capisce perché la sua nascita debba esser forzata da levatrici impazienti e dunque necessariamente maldestre. L’accumulo di diffidenza (per essere eufemistici) e propaganda, e le profonde spaccature (di potere) nei due partiti è tale da non potersi sciogliere in poche ore. Né d’altra parte ci si vorrebbe rassegnare a pensare che sia tutta questione di mi piace o non mi piace, come sui social network.
Un governo che abbia qualche prospettiva di durata e serietà (quel buon governo che serve a battere Salvini), deve basarsi su un confronto sulle cose, e non sui nomi. La trattativa che ha visto alla fine nascere il governo Conte è durata, comprensibilmente, due mesi: perché questa (anche più difficile) deve compiersi, o la va o la spacca, in meno di una settimana? In Germania la nascita dell’attuale governo Merkel ha richiesto quasi 6 mesi, mentre in Spagna è da 4 mesi che si discute di un esecutivo che probabilmente non partirà. Bisogna dimenticare la funebre retorica del “governo nato nell’urna” (peraltro ormai remota), e darsi un tempo ragionevole. Sappiamo bene che si rischia, così, di dover votare a Natale, e che i tempi della legge finanziaria incombono.
Ma dovremmo imparare, una buona volta, a scegliere il male minore: e un governo debole e destinato a cadere presto bruciando l’unica via d’uscita post-elettorale è un male maggiore. Avere più tempo significherebbe forse poter evitare errori fatali. Uno di essi è già apparso all’orizzonte, in queste ore frenetiche: ed è l’idea di un governo costituente. Al taglio dei parlamentari proposto dai Cinque Stelle, il Pd risponde proponendo una più complessiva riforma della Costituzione (monocameralismo e maggioritario, torna a sibilare Renzi nell’audio dal sen fuggito). C’è innanzitutto un grave errore di metodo: durante la campagna del referendum che bocciò la riforma Boschi-Renzi, ripetemmo fino a perdere il fiato (insieme a tutto il Movimento 5 Stelle) che non spetta ai governi cambiare la Costituzione. Anche i muri avevano allora imparato a memoria queste parole di Piero Calamandrei: “Nella preparazione della Costituzione, il governo non deve avere alcuna ingerenza…
Nel campo del potere costituente il governo non può avere alcuna iniziativa, neanche preparatoria… Quando l’Assemblea discuterà pubblicamente la nuova Costituzione, i banchi del governo dovranno essere vuoti”. Ebbene, fondare un nuovo governo su un patto costituente sarebbe un errore gravissimo, qualunque sia il contenuto di quel patto. Perché è evidente che Salvini si batte solo in un modo: attuandola, la Costituzione antifascista del 1948, non stravolgendola. Attuandola a partire dall’approvazione dell’unica legge elettorale che ne fa funzionare le garanzie: una proporzionale pura. E poi attuando soprattutto il secondo comma dell’articolo 3: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Più lo si attua, più il consenso a Salvini diminuisce: è sul come farlo che 5 Stelle e Pd dovrebbero confrontarsi. Con ragionevole calma.