Un paese che si identifica con ordine e polizia

di Alessandra Algostino - ilmanifesto.it - 07/04/2025
Decreto sicurezza L’abuso del decreto legge, stravolgendo il sistema delle fonti, viola la separazione dei poteri, che assicura la limitazione del potere: elemento imprescindibile di una democrazia costituzionale

C’era un disegno di legge in discussione in parlamento, detto «sicurezza», espressione del peggiore populismo penale, incostituzionale nell’anima e nelle disposizioni; il governo, con un golpe bianco (…invero nero), lo ha trasposto in un decreto legge.

Al contenuto eversivo si aggiunge l’eversione nei rapporti fra governo e parlamento.
Troppo forte il termine eversione? Il passato non si ripresenta allo stesso modo, ma la mutazione della democrazia in regime autoritario attraverso vie legali non è un pericolo astratto; il suo progressivo svuotamento sostanziale sotto l’involucro è un percorso in atto. Il parlamento discute, o tenta di farlo, vista la scarsa disponibilità alla mediazione politica (nel senso di effettivo processo di integrazione politica), ma «i tempi si sarebbero prolungati troppo» (citazione del ministro Piantedosi).

E allora interviene il governo, «nella sua più alta ma anche più concreta significazione di Istituto atto a risolvere nel modo più rapido, fermo e univoco tutte le molteplici questioni che nell’azione quotidiana si presentano, non impacciato da preventive compromissioni, non impedito da divieti insormontabili, non soffocato da dissidi, non viziato nella origine da differenze ingenite di tendenze e di indirizzi» (Mussolini, dibattito sulla legge Acerbo).

Iniziamo da qui: quali sono i motivi di necessità e urgenza? Leggendo la bozza compare solo un elenco tautologico di «considerata» e «ritenuta» «straordinaria necessità e urgenza»: mere clausole di stile, nulla di più. Come la Corte costituzionale ha ricordato più volte (da ultimo, sentenza 146 del 2024), il decreto legge è «uno strumento eccezionale», «la pre-esistenza di una situazione di fatto comportante la necessità e l’urgenza… costituisce un requisito di validità costituzionale»: in gioco sono gli «equilibri fondamentali della forma di governo». Con quanto ne consegue sulla forma di stato. L’abuso del decreto legge, stravolgendo il sistema delle fonti, viola la separazione dei poteri, che assicura la limitazione del potere: elemento imprescindibile di una democrazia costituzionale.

È l’ennesimo atto di asservimento e annichilimento del parlamento. Ennesimo, e «pesante»: per i diritti su cui incide il provvedimento, per il suo essere oggetto di una forte contesa politica, perché si tratta di materia in discussione nelle aule parlamentari, per l’insussistenza palese della necessità e urgenza (a meno che non le si voglia ridurre al meschino mercanteggiamento di interessi tra le forze di maggioranza).

Veniamo al contenuto. Lo schiaffo al parlamento – in violazione della Costituzione e inaccettabile in ogni caso – salvaguarda almeno dalle innumerevoli incostituzionalità del disegno di legge? Dalla bozza che è dato leggere, no.

I rilievi del Quirinale sono recepiti al minimo possibile. Alcune norme sono semplicemente ammorbidite, come nel caso delle madri detenute o della richiesta di documento per la vendita della Sim agli stranieri (non è necessario il permesso ma c’è l’obbligo di un documento di identità). Altre sono oggetto di interventi di plastica facciale, come nelle ipotesi della punizione degli atti di resistenza anche passiva: si specifica che gli ordini la cui disobbedienza è punita riguardano il mantenimento dell’ordine e della sicurezza, concetti passepartout. Sfiora il ridicolo la modifica della norma che riguarda l’aggravante «grandi opere», dove il riferimento alle opere pubbliche o infrastrutture strategiche è sostituito con «infrastrutture destinate all’erogazione di energia, di servizi di trasporto, di telecomunicazioni o di altri servizi pubblici». Di maggior rilievo, e indubbiamente positivo, lo stralcio della collaborazione di pubbliche amministrazioni e università con i servizi segreti, in deroga al diritto di riservatezza.

Restano, immutati, il reato di blocco stradale, la ridondante punizione dell’occupazione di immobili, l’ampliamento del daspo urbano, etc. La cappa illiberale e repressiva del provvedimento non muta: criminalizzazione e repressione del dissenso, stigmatizzazione e punizione del disagio sociale e della solidarietà, neutralizzazione del conflitto sociale. E restano il diritto penale dell’amico, i privilegi per la polizia, con il sotteso di uno stato che si identifica con le forze dell’ordine e l’obbedienza.
È sufficiente il restyling per tacitare – ed esautorare – l’opposizione e giustificare il silenzio calato sulla notizia? Il presidente della Repubblica, come garante della Costituzione, non dovrebbe domandare – cito Matteotti – «alla maggioranza che essa ritorni all’osservanza del diritto»?

Lungo la china del male minore, si scivola nel baratro.

Ancora una volta è dalla piazza, che si vuole chiudere in una zona rossa del dissenso e del pensiero, che può venire una risposta.

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