Non fossimo a ridosso delle elezioni, il maldestro infortunio politico occorso a Enrico Letta renderebbe opportune le sue dimissioni. Come minimo lo inviterei a chiedersi perché gli è capitato di fidarsi di Carlo Calenda, lui che otto anni fa si era lasciato già beffare da Matteo Renzi (di cui Calenda è solo una caricatura).
La spiegazione risiede nella cultura politica che accomuna Letta ai suoi due turlupinatori: il centrismo, malattia senile di una sinistra che ha reciso il suo legame originario col popolo degli oppressi e degli sfruttati in nome della governabilità, e ora ciancia a sproposito di “populismo delle élites”, dopo essersi assimilato in un progetto tecnocratico, quello di Draghi, che ha spianato la strada alla destra.
Va a infrangersi così il Pd che l’anno scorso si sbarazzò frettolosamente della segreteria Zingaretti consegnandosi ai Guerini e ai Franceschini, modesti eredi della tradizione democristiana. La faciloneria con cui Letta ha rotto l’alleanza con il M5S, in nome di una non meglio precisata “agenda Draghi” estranea alle istanze di giustizia sociale e di impegno per i diritti civili, somiglia a un suicidio assistito.
La sterzata imposta a un partito che pretendeva di riunire la sinistra italiana, s’infrange nel nome della lotta al populismo, formula abusata dall’establishment per salvaguardare il suo potere. Probabilmente è troppo tardi per rimediare, anche perché dal canto suo Giuseppe Conte evidenzia limiti di immobilismo che sembrano impedirgli di stipulare alleanze a sinistra e di entrare in relazione con settori di società in cerca di rappresentanza.
Ma se Letta avesse la virtù dell’umiltà dovrebbe almeno tentare un recupero, riconoscendo il suo errore e tornando sui suoi passi. La destra oggi festeggia. Non basterà regalare un pacchetto di seggi sicuri a Speranza, Fratoianni e Bonelli per avviare la ricostruzione di una sinistra credibile. Prima occorrerà liberarsi della funesta vocazione centrista che spadroneggia nel gruppo dirigente del Pd.
Gad Lerner