Il referendum contro l’autonomia differenziata ha natura dichiaratamente abrogativa. Almeno da questo punto di vista assolutamente in linea con quanto imposto dall’articolo 75 della nostra Costituzione. Nessuna manipolazione del quesito, nessun ritaglio della normativa a fini di introdurre surrettiziamente una nuova regolamentazione, puntuale la ratio che la ispira e la matrice razionalmente unitaria del quesito posto, che, pertanto, risulta «chiaro, univoco ed omogeneo», come richiede la giurisprudenza costituzionale. La domanda è secca: «Volete voi che sia abrogata la legge 26 giugno 2024, n. 86» (la legge Calderoli)? Si poteva fare altrimenti?

Si poteva fare altrimenti? Certamente: si potevano proporre referendum di abrogazione parziale, si poteva tentare di far cambiare il senso alle parole della legge. Si poteva seguire il suggerimento manzoniano del «sopire, troncare, padre molto reverendo: troncare, sopire», magari al buon fine di superare il vaglio della Consulta, che molti temono data la sua giurisprudenza ondivaga. La scelta dei promotori del referendum è stata un’altra, per una volta improntata alla chiarezza della domanda da sottoporre al corpo elettorale. Un ritorno allo spirito del referendum e alla sua logica dicotomica, Sì o No alla legge vigente.

Ma quali sarebbero gli effetti se si riuscisse ad ottenere l’abrogazione secca della legge Calderoli per mezzo del referendum? Qualcuno ha provato a immaginare gli scenari futuri e in molti hanno utilizzato argomenti ingannevoli o comunque ultronei. Atteniamoci ai fatti. L’abrogazione cancella la legge sottoposta a referendum: nulla più, nulla meno.

NE CONSEGUIREBBE l’abrogazione anche della norma costituzionale cui si riferisce (l’articolo 116, terzo comma)? Ovviamente no, purtroppo essa potrà trovare una diversa attuazione. Certo, il legislatore futuro dovrà tener conto dell’abrogazione intervenuta che definisce sì un vincolo, ma – come ha spiegato la Consulta – meramente «negativo» e certamente non in grado di incidere sul piano costituzionale. Tanto più che la legge Calderoli – a dispetto di quanto viene immaginato da alcuni nella speranza di rendere inammissibile il quesito – non è certamente l’unica possibilità di dare attuazione alla disposizione costituzionale; pertanto, non è qualificabile come costituzionalmente «necessaria» ovvero «obbligatoria».

L’esito referendario tantomeno riguarderà, neppure implicitamente, l’intero Titolo V, come qualcuno paventa (altri auspicano, in verità). Dal punto di vista strettamente costituzionale è necessario ricordare che i referendum abrogativi non hanno la forza di definire un indirizzo politico alternativo ed autonomo, a maggior ragione se quest’indirizzo coinvolge espressamente il piano costituzionale. Tra i maggiori problemi del nostro sistema di democrazia partecipativa v’è proprio quello del seguito dei referendum, che sono stati troppo spesso «traditi».

Già agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso ci si interrogava su come assicurare l’«innesto» dei referendum nella forma di governo parlamentare. In caso, dunque, ciò che si deve auspicare è che dopo il referendum forze politiche responsabili riflettano su quale diverso regionalismo si può attuare in nome della Costituzione vigente, magari cominciando a guardare agli errori commessi e prospettando un modello più solidale e meno competitivo così come chiaramente definito nei primi articoli e nello spirito complessivo della nostra Costituzione. Un modello mai attuato, che – ahimè – non sarà solo un’abrogazione di legge ordinaria a poter direttamente realizzare.
Quel che mi sembra necessario mettere ora, e con realismo, in evidenza sono i due aspetti certi e fondamentali, tra loro collegati, che potranno derivare dall’eventuale successo referendario.

IL PRIMO EFFETTO «diretto» è che si sarà evitato il peggio, anche se non si sarà (ancora?) potuto costruire il meglio. In fondo, sotto questo profilo – solo sotto questo profilo – si possono affiancare i referendum «abrogativi» di legge ordinaria e quelli «oppositivi» sulla legge costituzionale approvata dal Parlamento in via definitiva, ma che può essere oggetto di consultazione popolare ai sensi dell’articolo 138 della nostra Costituzione. Nel 2005 o nel 2016 si è evitato il peggio costituito delle riforme di Berlusconi prima e di Renzi poi, ma non si è certo potuto realizzare il meglio rappresentato dall’attuazione della Costituzione.

Così ora si vuole evitare il peggio espresso dalla legge Calderoli, da tutti – da Italia Viva a Rifondazione comunista – ritenuta non difendibile, ma certo non in grado di definire il meglio di un regionalismo solidale al posto di quello competitivo. Cionondimeno, già questo – la creazione di un campo largo in opposizione al peggio – mi sembra un risultato tutt’altro che da sottovalutare.

Il secondo aspetto è «indiretto», ma forse ancor più rilevante. Riguarda la necessità di dare seguito alla decisione espressa direttamente dal corpo elettorale. Un seguito incerto, ma che potrà contare su dei paletti che possono segnare una profonda inversione di rotta rispetto all’attuale stato delle cose.

Anzitutto, come già accennato, non si potrà ripristinare la normativa abrogata (vincolo negativo), inoltre il riformatore rispettoso dell’esito referendario dovrà ispirarsi a quelli che la Consulta ha avuto modo di chiamare i «principi ispiratori» ovvero non potrà porsi in palese contrasto con l’intento perseguito mediante il referendum. Dal referendum abrogativo non nasce un obbligo di risultato, ma la creazione del vuoto normativo – la distruzione del peggio – favorisce e promuove il cambiamento in direzione contraria, con un potenziale effetto espansivo di straordinaria portata. Non è tutto, ma è molto. Di questi tempi il massimo che si può ottenere per fermare il lungo regresso e ricominciare a pensare altrimenti il futuro. Un fatto «rivoluzionario».