Dobbiamo attrezzarci fin da
ora per la strenua battaglia che dovremo condurre con tutte le nostre forze
contro l’evento più pericoloso di questa fase politica, che potrebbe introdurre
danni irreversibili nella nostra comunità italiana e che per questa ragione non
si può correggere dopo, ma occorre impedire prima. Non ci riferiamo all’una o
all’altra delle proposte economiche e politiche per loro natura opinabili, che
ogni maggioranza ha il diritto di avanzare, secondo i propri programmi o
“contratti”, e su cui non vogliamo ora discutere, non trattandosi qui di
prendere posizione pro o contro il governo. Ci riferiamo invece a una modifica
di sistema, quella dell’art. 52 del Codice penale sulla legittima difesa.
Una riforma di questo istituto fu già tentata nella scorsa legislatura quando
la Camera approvò a grande maggioranza una maldestra legittimazione dell’uso
delle armi in ogni caso di violazione di domicilio (o ufficio, o negozio),
quando questo avvenisse “di notte” o con violenza, minacce o inganno, modifica
di cui lo stesso Renzi si pentì per cui il provvedimento fu poi insabbiato al
Senato. Ma poiché la pulsione a estendere la portata della legittima difesa è
trasversale alle forze politiche, ora una nuova concezione e promozione di essa
viene avanzata dalla Lega di Salvini e dalle altre forze della destra
(contrario, questa volta, il PD) ed ha cominciato l’iter legislativo al Senato.
Ma al contrario del pasticcio escogitato nella passata legislatura, questa
volta l’intenzione è chiara: si tratta di trasformare la legittima difesa da
esimente dalla responsabilità di un reato (“non punibile”, secondo la
valutazione del giudice) in azione qualificata come diritto, e dunque presunta
sempre come legittima salvo prova in contrario.
Non si tratta solo della modifica di una norma, è un cambiamento di cultura e
di civiltà.
La forma originaria in cui la legittima difesa figurava nel nostro Codice fino
al 2006, era incredibilmente ispirata a un supremo principio cristiano: non si
deve mai sparare o fare del male a nessuno neanche se si è offesi, il farlo si
presume come reato, a meno che si sia costretti a farlo “dalla necessità” di
difendersi – dice l’art. 52 - “contro il pericolo attuale di una offesa
ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”; insomma, per ogni
morto ammazzato era comunque obbligatoria l’azione penale. Nel 2006 su impulso
del ministro leghista della Giustizia, Castelli, fu aperto un primo squarcio
nella norma presupponendosi come proporzionato l’uso di armi legittimamente
detenute per difendersi in casi di violazione di domicilio (o negozio o
ufficio) quando non vi sia desistenza e vi sia pericolo d’aggressione.
Dunque difendersi in casa con le armi è già consentito dal codice attuale.
Tuttavia, pur avendo esteso la “legittima difesa” e averla rinominata come
“difesa legittima”, l’attuale formula dell’art. 52 non concede un’indiscriminata
licenza di uccidere e lascia in campo il giudice per decidere, caso per caso,
se la proporzione tra offesa e difesa abbia fatto venir meno la punibilità del
reato, fermo restando che l’ordinamento considera reato il farsi ragione da sé con
violenza e minaccia contro chi attenta a un proprio diritto (art. 393 C.P.).
Qui la regola non è ovviamente quella del Vangelo non violento (“porgi l’altra
guancia”) ma è quella della tutela del bene di ciascuno e di tutti che la
civiltà ha trasferito dalla violenza e vendetta privata alla tutela e alla
giustizia pubblica.
Ora la spinta populista e mediatica che da tempo istiga a plebisciti securitari
e che ultimamente è veicolata da Salvini, rovescia la presunzione sulla
legittimità mutando il reato in diritto: se prima nella coppia offesa-difesa
arbitraria c’erano due reati, adesso ci sono un reato e un diritto.
Giustamente il presidente Mattarella si è preoccupato, e di fronte a qualcuno
che compra un fucile e spara a una bambina rom dal balcone dice che l’Italia
non si può trasformare in un Far West. Ma anche la buona fede di Salvini va
presunta quando dice di non volere né più armi né il Far West ma di volere
“garantire ai cittadini per bene la possibilità di difendersi in casa propria”:
“vorremmo – dice – rendere meno complicato il difendersi per coloro che sono in
stato di aggressione da parte di delinquenti che le armi purtroppo le hanno”.
Sembra buon senso: e infatti, aggiunge Salvini, “se io ti trovo in casa mia
alle tre di notte con i miei figli che dormono e non ho porto d’armi, pistole,
fucili, machete… ma se trovo qualcosa a portata di mano, anche un mattarello,
sicuramente non aspetto che qualcuno a casa mia mascherato mi spieghi le sue
intenzioni”. Una posizione più meditata ci si aspetterebbe dal ministro della
Giustizia, il cinque stelle Alfonso Bonafede, il quale infatti assicura che in
nessun modo l’innovazione legislativa potrà portare alla liberalizzazione delle
armi in Italia, dove sulla detenzione e il porto d’armi esistono disposizioni
rigorosissime su cui il governo non intende intervenire; tuttavia la sua difesa
del provvedimento resta assai infantile, quando si appella al bisogno di
sicurezza dei mitici “cittadini”, passepartout che dispensa dall’argomentare, e
quando dice che si tratta solo di far fuori “i cavilli” con cui i giudici
possono ancora importunare “i cittadini” che, in assenza dei carabinieri (dello
Stato), si difendono da sé in casa propria. Ma i cavilli, come i giovani forse
non sanno, sono la differenza tra lo Stato di diritto e la legge della giungla,
tra un sistema di garanzie e un sistema di violenze private; e sono proprio i
cittadini a saperlo, se vista la cultura emergente, si stanno dando da fare per
organizzarsi con le ronde.
E questo ci porta al vero problema: il problema non è affatto quel poco di
impunità in più che la riforma della “difesa legittima” sembra concedere; anzi
può anche darsi che la maggioranza dei cittadini non abbia alcuna voglia di
mettersi a sparare; in questo Salvini e Bonafede hanno ragione. Il problema è
che - se questo è il messaggio che la pedagogia della legge trasmette - se non
oggi, domani, se non con questo governo con un altro, se non in questa
legislatura nella prossima, la logica stringente dell’autodifesa armata a
domicilio farà sì da mandare in soffitta, come arretrato, il mattarello
salviniano, e da far apparire normale che in ogni casa ci sia un’arma, che in
ogni ufficio ci sia un fucile, che i negozi d’armi proliferino e si riempiano
di merci per esaudire tutte le richieste, che il porto d’armi diventi come la
patente che non si nega a nessuno, e che giocare con la pistola finisca per
essere come il twittare col telefonino.
Nell’abbandono postmoderno delle cose chiare e distinte, corre ad essere
travolta anche la distinzione, fin qui simbolicamente fortissima, tra le armi e
la normalità della vita civile disarmata (le divise, le stellette, le “Forze
armate”, il porto d’armi, le zone militari, il ministero che non si chiama più
“della guerra”, sono tutti segni di una conclamata alterità e differenza). E se
viene meno lo spartiacque tra l’uso delle armi e il non uso, allora viene meno
anche lo spartiacque tra un genere di armi e l’altro, tra armi leggere e armi
pesanti, e il divario diventa solo un fatto di quantità: non è per niente un
caso che gli Stati Uniti che nel Secondo emendamento alla Costituzione
garantiscono il possesso e l’uso delle armi a tutti, sono quelli che si sono
inventati e hanno usato anche per primi la bomba atomica. Se cambia la cultura,
cambia tutto, a cascata.
Perciò una battaglia contro la libera fruizione delle armi, contro la lobby del
mercato delle armi, contro i supermercati delle armi messi nelle zone
commerciali delle città, si può fare finché la cultura, il senso comune,
l’istinto di ciò che è bene per tutti, non siano ancora cambiati. La grande
mobilitazione per Comiso fu possibile perché milioni di persone avevano ancora
la sana percezione che mettere i missili era come usarli, e che non si poteva
minacciare di distruzione nucleare l’Ungheria senza che la Sicilia fosse
esposta all’olocausto. Perciò ci fu un movimento per la pace, ed ebbe
ragione.
Ora si tratta di trattenere in vita le culture della legalità, dello Stato di
diritto, della società non armata, dei cittadini senza l’istinto di porre mano
alla pistola. Perché poi, quando sarà realizzata la promessa “più armi per
tutti”, ci saranno anche i bravi cittadini che le useranno con saggezza, ma
basterà che un folle, un ragazzo, una persona disturbata, un frustrato della
vita, un abbandonato – o un immigrato, un terrorista: non è di loro che ci
preoccupiamo? - una volta all’anno si metta a sparare nel mucchio, e non sarà
il Far West, che pure aveva una sua cultura, sarà il terrore della vita
quotidiana. Non è colpa del governo, ma se il governo non lo capisce, dovrà il
suo stesso elettorato metterlo in questione; se non è l’elettorato della Lega,
sarà dei Cinque Stelle, in entrambi ci sono di certo larghissime zone di
persone sagge, lungimiranti, capaci di guardare al di là del parapetto, per vedere
il precipizio, prima della caduta; ma è chiaro che i guasti della democrazia è
la democrazia stessa che deve fermarli (“i cittadini”!), anche a costo di far
cadere un governo per cui si è votato.
Perciò, finché si è in tempo, bisogna fare questa battaglia, come per
Comiso, e qui di sicuro tra le due cose c’è proporzione, perché la posta in
gioco è la stessa, una società non prigioniera, non minacciata dalle armi nel
suo stesso esistere.
Raniero La Valle è presidente del Comitato Dossetti per la Difesa della Costituzione. Direttore de Il Popolo, quotidiano Dc durante il governo Moro, nel 1961 dirige L’Avvenire, quotidiano cattolico. I suoi documentari Rai-Tv raccontano realtà lontane: Stati Uniti, America Latina, Medio Oriente. Parlamentare della Sinistra Indipendente è promotore del Manifesto per la Sinistra Cristiana, rilancia i valori del Patto Costituzionale del ’48 e la critica alla democrazia maggioritaria. Fra i suoi libri “Dalla parte di Abele“, “Agonia e vocazione dell’Occidente“, “Quel nostro Novecento“, “Cronache Ottomane“