Ilaria Cucchi, che effetto le fa vedere le file davanti ai cinema e le piazze piene per le tante proiezioni del film che parla di suo fratello organizzate spontaneamente in questi giorni?
Queste manifestazioni spontanee sono davvero qualcosa di enorme, che scalda il cuore, ci fa sentire meno soli e soprattutto mostra l’interesse che ruota attorno alla storia di Stefano e ai casi simili di cui ci occupiamo con l’associazione che porta il suo nome. Che siano iniziative clandestine, che lo si veda al cinema oppure su Netflix, ciò che mi sta più a cuore è che questo film venga visto da più persone possibile. Che se ne parli, e faccia discutere di una storia che si voleva negata fin dall’inizio ma che era chiara ed evidente agli occhi nostri e di coloro che si sono approcciati con onestà a questa nostra vicenda.
Mi vengono in mente tutti coloro che in questi anni si sono augurati che di Stefano Cucchi non se ne parlasse più. E mi viene in mente che questo film sarà visto in 190 paesi del mondo, su Netflix. Non posso non pensare a dove siamo partiti: a Stefano che muore da solo come un cane nell’indifferenza generale di tutti coloro che gli ruotano attorno in quei sei giorni del suo calvario; a me e ai miei genitori che ci troviamo di fronte ad un agente che ci dice che il ragazzo si è spento, che possiamo solo farcene una ragione perché tutto si è svolto nell’ambito delle regole; ai nove anni di lotta per aprire una breccia nell’oscurità. E adesso mi guardo attorno e mi rendo conto che il lavoro che abbiamo fatto Fabio (l’avvocato Anselmo, ndr) ed io ha raggiunto il risultato di risvegliare le coscienze di tutti, anche di coloro che mai avranno a che fare con vicende simili a quella che è toccata a me e alla mia famiglia. Ma che ora percepiscono che se vinciamo la nostra battaglia sarà una vittoria anche per affermare i loro diritti.
Ilaria Cucchi (Foto: LaPresse)Ha notato il silenzio che cala nelle sale e nelle piazze dopo la proiezione?
Impressionante. Nemmeno l’applauso come atto liberatorio, scatta. E ho notato anche che gli spettatori fanno fatica ad alzarsi dalle poltrone, come se non volessero andare via.
Eppure la figura del tossicodipendente è particolarmente stigmatizzata nella nostra società. E di ciò che accade nelle carceri importa assai poco. Come mai, secondo lei, si è creata questa empatia con Stefano e la sua famiglia?
Credo sia il frutto del lavoro fatto in questi anni e della nostra testimonianza. Abbiamo dimostrato che, se sai di essere nel giusto e se non ti pieghi a ipocrisie e ingiustizie, ce la puoi fare. È vero che all’inizio eravamo soli, ma oggi sento la vicinanza di persone diversissime tra loro che hanno visto come propria ogni nostra anche piccola vittoria. Come un senso di rivalsa davanti ai piccoli o ai grandi soprusi che ciascuno di noi può essere costretto a subire nel proprio vivere quotidiano, in ogni ambito.
Quando il regista Alessio Cremonini l’ha chiamata per riferirle del suo progetto, si aspettava tutto questo?
No, all’inizio ero spaventata. Spaventata di mettere la nostra vita e i nostri sentimenti nelle mani di sconosciuti. Oggi posso dire che, malgrado noi siamo stati del tutto estranei all’operazione, sia nella fattura che nella produzione del film, non potevamo affidarci a mani migliori. Alessio Cremonini è entrato con molto rispetto in sintonia con le nostre vite, fino a conoscere tramite noi anche Stefano. E il risultato è questo splendido film, con l’interpretazione magistrale di Alessandro Borghi, che a tratti, se socchiudo gli occhi, davvero lo confondo con mio fratello.
Una capacità interpretativa eccezionale. La voce è identica, come si capisce nella registrazione originale della deposizione di Stefano davanti al giudice che accompagna i titoli di coda del film.
La voce, le espressioni, il modo di camminare, certi particolari di mio fratello che conoscevo solo io… Alessandro Borghi è la prima persona che ho chiamato appena ho visto il film, per chiedergli come avesse fatto, visto che non conosceva Stefano, a somigliargli così tanto. Perfino io ho avuto qualche secondo di dubbio nel distinguere la voce di Alessandro da quella di Stefano.
Quale è stata la cosa che ha trovato più toccante, nel film?
La sofferenza di Stefano, quell’aspetto umano che nessuno potrà mai ricostruire. A fatica, in questi anni, siamo riusciti a riordinare tutte le tappe del suo calvario. Ma l’aspetto umano, intimo, spirituale, con cui Stefano ha vissuto quei giorni non potremo mai saperlo. E in un certo senso questo film me lo fa conoscere. E poi c’è un particolare che mi ha commosso profondamente: quando, verso la fine del film, Stefano pensa ai suoi genitori e dice tra sé e sé che non meritavano un figlio come lui. Ecco, voglio dire che non è vero. Che Stefano si sbagliava. Perché era un essere imperfetto come ciascuno di noi, aveva tanti difetti e tanti pregi come tutti, ma lo vorrei indietro. Pagherei oro per riaverlo qui con tutti i suoi difetti.