Quando nel 2010, in Italia, venne organizzato lo sciopero nazionale dei lavoratori migranti, meglio noto come “sciopero del 1° marzo”, l’obiettivo era essenzialmente quello di far capire al Paese che, se i lavoratori migranti si fermassero anche solo per qualche giorno, la nostra economia e una parte del mondo dell’assistenza domestica e agli anziani andrebbero in tilt. Lo sciopero fu partecipato ma non abbastanza, perché molti migranti erano bloccati dalla paura di perdere il lavoro e mettere a rischio, in virtù delle stringenti disposizioni della legge Bossi-Fini, il permesso di soggiorno. Così l’Italia non se ne accorse, non apprese la lezione, continuando nella sua economia di sfruttamento, di spremitura del lavoro dei migranti, accompagnandola negli anni con leggi sull’immigrazione sempre più repressive, ottuse, disumane.
Sono passati dieci anni e ci ha pensato un virus a far saltare il tavolo e a svelare all’Italia cosa significa non riconoscere diritti e cittadinanza ai migranti, ossia a chi cittadino lo è già, perché contribuisce con il proprio lavoro, regolare o no, “al progresso materiale o spirituale della società”, come richiesto dalla nostra Costituzione (art. 4). Fa insomma il proprio dovere, ma non riceve i diritti che gli spettano. Oggi, l’emergenza Covid-19 ha messo a nudo tutta l’ipocrisia del nostro sistema economico, di una buona parte del mondo imprenditoriale e di quello politico. Interi settori della nostra economia sono provati dalla crisi, molti sono chiusi per ragioni di sicurezza, quelli aperti, come ad esempio l’agroalimentare, si trovano a fronteggiare il problema della indisponibilità di manodopera. Soprattutto in agricoltura e in particolare nelle attività stagionali, mancano i migranti, quelli che si spostano di continuo per andare a rispondere alle offerte di lavoro nei campi delle aree rurali italiane.
Da qui, le lamentele delle organizzazioni di categoria, gli allarmi di qualche ministro, le richieste di avviare quella sanatoria della quale si era già parlato a fine dicembre 2019. Una sanatoria che in qualche modo possa aiutare gli irregolari a emergere e a diventare forza lavoro regolare. Da più parti, dunque, la sanatoria è considerata il mezzo per risolvere la questione urgente della carenza di lavoratori, soprattutto in agricoltura. Il dibattito sta prendendo questa piega, anche la ministra Bellanova ha parlato di regolarizzazione per poter sopperire alle carenze nell’agroalimentare. Ma davvero è solo questo? Davvero si tratta solo di lavoro e di tappare dei buchi? Il fatto è che continuiamo a considerare i migranti non in quanto esseri umani titolari di dignità e diritti, ma in quanto forza lavoro. Parliamo di riconoscimento dei diritti dei migranti sempre ed esclusivamente in termini di utilità economica per noi e per il nostro sistema.
Allora viene da porre una domanda alle organizzazioni di categoria, ai ministri e anche a qualche associazione e sindacato: la carenza di manodopera è dovuta all’assenza di documenti oppure all’impossibilità di spostarsi da una provincia e da una regione all’altra e alla contemporanea indisponibilità di lavoratori italiani a svolgere il duro lavoro nei campi? Forse qualcuno dimentica che lo sfruttamento nelle campagne e in altri settori dell’economia va avanti da anni e riguarda non solo gli irregolari ma anche i regolari. Il ricorso al caporalato, i contratti con cifre false, le paghe non riconosciute, le decurtazioni non spiegate, il lavoro nero, i licenziamenti in tronco senza alcuna procedura, sono “abitudini” che valgono per tutti i lavoratori stranieri, sia regolari che irregolari, in diversi settori produttivi, non solo in agricoltura. Allo stesso modo, il possesso del permesso di soggiorno non garantisce la possibilità di trovare un alloggio dignitoso nelle zone di impiego stagionale, dove spesso nessuno ti affitta una casa o una stanza e non ti rimangono che le baracche, i casolari diroccati, gli alberi, le tende, la strada.
Non è certo la regolarizzazione, dunque, a eliminare lo sfruttamento. Ecco perché parlare di sanatoria collegandola principalmente al tema del lavoro è sbagliato, sia perché sdogana una concezione utilitaristica dei diritti della persona, sia perché non risolve quello che è un malfunzionamento del sistema che ha responsabilità diffuse, politiche ed economiche, e che si nutre dell’ipocrisia di tanti soggetti. L’ipocrisia di chi da anni assume manodopera in nero, utilizzando i caporali, e di chi fa finta di non vedere, non manda ispezioni, non indaga, non sanziona né si dota di sistemi normativi e di controllo efficaci. La sanatoria pertanto deve andare oltre questo legame con il lavoro, proponendosi come mezzo necessario di riconoscimento di diritti dell’uomo, in quanto tale.
In Italia il numero di migranti privi di documenti regolari è soltanto stimato, non certo. Si stima che siano tra i 500 e i 600mila, ma è un numero che crescerà con la conclusione delle procedure relative alle domande di asilo, rispetto alle quali i dinieghi toccano percentuali tra il 60 e il 70% (anche in virtù di una circolare dell’ex ministro Salvini che, nel luglio del 2018, chiedeva una stretta alle commissioni). A questi si aggiungeranno coloro che hanno fatto richiesta di protezione umanitaria dopo l’entrata in vigore della legge 132/2018 che l’ha cancellata, che non avranno molte possibilità di rimanere regolarmente in Italia. Così, la stima degli irregolari salirà presumibilmente a 700-800mila. Essere irregolari, senza documenti, vuol dire non avere alcuna garanzia e alcun accesso ai servizi essenziali per una persona. L’impossibilità di un affitto o di un lavoro in regola sono solo alcuni aspetti, amplificati dal non possedere documenti, ma sono aspetti che vengono superati dal sommerso, da ciò che questo Paese chiuso, crudele e ingiusto “offre” ai migranti, spesso anche a quelli regolari ma costretti a vivere ai margini. Lavori usuranti e sottopagati, abitazioni fatiscenti e sovraffollate.
L’essere sicure vittime di sfruttamento è poi un altro aspetto, ma anche in questo caso molte volte lo si condivide anche con chi il documento ce l’ha ma non riceve le opportunità di interagire con il tessuto economico legale del nostro Paese. Quello che invece chi non ha documenti vive in misura drammatica è l’assenza di tutele sanitarie. I migranti che vivono in clandestinità non hanno medici di base perché non risultano iscritti al Sistema sanitario nazionale, non possono curarsi se non in casi emergenziali, andando al Pronto Soccorso, cosa che però molti evitano per paura di essere identificati e sottoposti a provvedimenti di espulsione. In un periodo come questo, con un’emergenza sanitaria in corso, lasciare che centinaia di migliaia di persone rimangano invisibili, senza diritti, senza la possibilità di essere censiti per la verifica delle loro condizioni e, in caso di contagio, curati e sottoposti alle misure sanitarie previste, è un rischio per la loro salute e per quella della popolazione. Ma soprattutto è una ferita indegna alla dignità delle persone.
Una ferita prodotta dalla lama infetta di un Paese che oggi ci tiene a mostrarsi solidale ma che continua a dimenticare gli ultimi, quelli che non hanno voce e diritti. Ecco perché la sanatoria, la regolarizzazione generale sarebbe la risposta migliore di una nazione civile per dimostrare di avere imparato qualcosa da questo dramma e di voler cambiare la direzione di una storia che, negli ultimi anni, ha generato ingiustizie di portata enorme. Regolarizzare la posizione dei migranti, indipendentemente dal loro status di lavoratore utile a questo o quel comparto produttivo, significa riconoscere innanzitutto l’essere umano e il suo diritto a esistere. Perché se è vero che ce la faremo, è altrettanto vero che potremo farcela solo insieme, nessuno escluso.
Massimiliano Perna -ilmegafono.org