Noi festeggiamo in questi giorni il nostro 25 aprile e siamo molto orgogliosi della nostra Resistenza, al punto da esserne gelosi. Così quando qualcuno ha paragonato la lotta del popolo ucraino, aggredito dai russi, alla nostra Resistenza, apriti cielo! Sono rimasta profondamente delusa dalle motivazioni dell’ANPI sulla legittimità di paragonare la nostra Resistenza alla lotta di liberazione del popolo ucraino. Premetto che sono figlia di un partigiano, arrestato dai nazisti in una retata, internato in un campo di prigionia vicino a Biella, torturato e scambiato solo perché malatissimo (quando l’hanno arrestato stava andando in ospedale ad operarsi) e dunque inutile. Ho dunque il massimo rispetto per i nostri partigiani e la nostra Resistenza, ma non sono così cieca da non capire che la resistenza armata ad un invasore è sempre resistenza! O vogliamo chiamarla con un termine abusato di questi tempi: resilienza? Ma non siamo ridicoli! Anche noi fummo aiutati dal governo americano, allora, che ci fornì le armi e anche noi dobbiamo al valore di donne e uomini, patrioti animati da un coraggio e un’abnegazione eroici, se oggi siamo un paese libero e democratico. E se qualcuno allora avesse detto “ma perché dobbiamo armare gli italiani? Che ne sappiamo di loro? E non prolungheremo così la guerra? Non sarebbe meglio per noi che si arrendessero? “, forse oggi sarebbe tutto diverso e non solo per noi italiani, ma per il resto dell’Europa e del mondo.
E tuttavia: mi piace Zelenski? No. E non perché faceva l’attore. Qui in Italia non possiamo essere schizzinosi con nessuno, conoscendo i nostri politici. Ma mi irritano le sue pretese, mi urta una certa sua protervia nell’imporre ai potenti del mondo, riuniti come pubblico scelto ai suoi monologhi, le condizioni sugli aiuti da dare al suo paese. Comprensibile che lui cerchi di ottenere il massimo, vista la situazione, ma non si può pretendere che si immolino alla sua causa tutti gli altri. Che del resto non hanno fatto un granchè per trovare soluzioni alternative all’invio di armi.
Vorrei che vincessero gli ucraini? Certo che sì e con tutto il cuore. Lottano contro un nemico dieci volte più forte, bugiardo, oppressivo, selvaggio, crudele e disumano. E senza onore. Che non contempla nessun accordo: gli ucraini devono solo soccombere, arrendersi e firmare una resa che li mutilerà. E intanto Putin e i suoi scherani fanno finta di essere loro le vittime, mentendo in un modo così spudorato da essere perfino ridicolmente infantile. Forse sono convinti che l’occidente sia a digiuno di notizie come i loro poveri compatrioti russi, che non sanno nemmeno se i loro figli, mandati a una guerra che si impedisce perfino di chiamare tale, siano morti o no. Mi fanno pena anche quei russi indottrinati e zittiti, minacciati, intimiditi e manipolati. Capisco quale sia la loro condizione e provo un senso di malessere profondo, perché c’è qualcosa che mi ricorda una esperienza che ancora mi fa male. Era l’agosto del 1976 e c’era ancora l’Unione Sovietica, ed io e mio marito, insieme ad un’altra coppia romana con tre bambini eravamo parte di una piccola “italianski delegazia”, ospiti dei sindacati sovietici in terra russa. Mio marito e il compagno romano erano alti dirigenti della CGIL, della parte socialista. Restammo un mese lì, con un interprete sempre al nostro fianco, trattati benissimo, in alberghi lussuosi, con macchine e treni a nostra disposizione. Ma… c’era un grosso ma: come ci ricordò gentilmente ma fermamente il nostro interprete, noi eravamo ospiti e si aspettavano da noi che fossimo leali e corretti. La cosa più importante era che noi non avessimo nessun contatto con la popolazione locale, che non dessimo a nessuno i nostri soldi occidentali e che riferissimo a lui qualsiasi contatto tentato dalla popolazione dei luoghi che avremo visitato. Del resto non era facile che potessimo avere contatti: noi non avevamo soldi russi e dunque non potevamo prendere un mezzo pubblico o un taxi, non conoscevamo la lingua per chiedere qualche informazione, se ci fossimo persi; potevamo comprare solo nei cosiddetti “Berioska”, una catena di negozi dove si pagava solo coi soldi occidentali e nei quali le popolazioni locali non potevano entrare. Una separazione totale, anche perché ai sovietici evidentemente non era dato di conoscere e parlare altre lingue che la loro, nemmeno negli alberghi. Visitammo tante città, fra cui Mosca, Kiev e Sochi, sul Mar Nero, dove restammo due settimane, ospiti dei “Sanatori Metallurg”, cioè una sorta di centro di salute, con altre delegazioni di altri paesi dell’area della cortina di ferro. Ma è stato a Kiev che ci capitò una esperienza che ci ferì profondamente. Kiev era una città meravigliosa, la chiamavano Kiev la verde, perché non c’era finestra o balcone o giardino che non traboccasse di piante e fiori; i parchi bellissimi si affacciavano su un fiume azzurrissimo, il Dniepr, che divideva la città ed era bordato di sabbie bianchissime, dove gli ucraini prendevano il sole. La bellezza del luogo ci invitò a girare un po’ per quella parte di città vicino al nostro albergo e mentre percorrevamo un viale chiacchierando e ridendo fra noi, liberi dalla nostra “balia”, da un giardino vicino si alzò un canto conosciuto: era Bella ciao. Era ovviamente rivolto a noi. Ci fermammo e ci chiedemmo se potevamo rispondere a quelle voci, ma ci era stato espressamente chiesto di non avere nessun contatto con la popolazione locale. Potevamo fregarcene e rispondere? O avremmo messo nei guai non solo noi, ma anche questi cittadini sovietici, così desiderosi di parlare con noi? E come mai conoscevano l’italiano e il nostro canto della Resistenza? Era una trappola? Riprendemmo il nostro cammino senza voltarci, mentre il canto si faceva più forte. Tornammo in albergo in silenzio. Fu da quel momento che mio marito cominciò a parlare in sardo con me, anzi in campidanese stretto, escludendo il nostro interprete.
A me quel canto, quell’incontro mancato mi è rimasto dentro, come un rimorso. E quando è cominciata la guerra e i bombardamenti a Kiev, ho rintracciato quei vecchi amici della “italianski delegazia”, che non sentivo più da oltre quarant’anni. Perché noi l’avevamo vista quella città e l’avevamo amata e avevamo negato la nostra disponibilità a quelle persone.
Come finirà questa guerra? Ma soprattutto: finirà? O evolverà in qualcosa di peggio? Possiamo aspettarci qualunque cosa da quell’arrogante narciso sociopatico che governa la Russia come fosse un paese di servi e di schiavi. Ma certamente non vogliamo finire sotto le sue unghie. Beh, i nostri padri hanno sconfitto Hitler, possiamo noi zittire questo dittatore da quattro soldi.
In nome della nostra Resistenza e anche della lotta di un popolo coraggioso come quello ucraino.
Viva le Resistenze in ogni dove e il nostro 25 aprile
Barbara Fois