Avrebbe certamente apprezzato, col suo umorismo ironico e disincantato, di morire proprio il giorno di san Lorenzo, il giorno in cui le stelle cadenti illuminano il cielo agostano. Perché parlo di lei, quando tante voci autorevoli e sue amiche personali lo hanno già fatto e benissimo? Perché sono in debito con lei: le devo delle scuse, per averla mal giudicata. Quando nel 2010 uscì il suo libro Accabbadora, nell’ambiente culturale sardo scoppiò un dibattito acceso. Soprattutto nel campo dell’Antropologia culturale e delle tradizioni popolari. Accusavano Michela Murgia di utilizzare vecchi e mai confermati topoi sulla Sardegna tribale, di utilizzare l’alone pseudo esotico di una terra “misteriosa”, senza alcuna sostanza storica e scientifica. Purtroppo non sarebbe stata la prima volta che una mentalità paesana e ignorante avesse la meglio sulla cultura e sulla scienza, non sarebbe stata la prima volta sentir raccontare bugie imbarazzanti e penalizzanti e i cosiddetti “Falsi d’Arborea” ne sono un esempio mortificante.
Nell’ascoltare (senza mai parteciparvi, sia chiaro) queste voci dissidenti, mi dimenticai di un fattore fondamentale: l’invidia endemica e agra, corrosiva e distruttiva della mia terra, quella che ci ha sempre storicamente penalizzato, lasciandoci sulla panchina di una serie B culturalmente umiliante. Ma soprattutto feci un errore fondamentale, che non avrei mai scusato nei miei studenti: mi fidai di quanto detto da colleghi e cosiddetti esperti, senza andare a verificare. Così con una alzata di spalle infastidita, mi lasciai alle spalle la contesa, ripeto: senza parteciparvi in alcun modo (ovviamente: sono una medievista, non un’antropologa!) e per me la cosa era chiusa così, ma mi era rimasta come un’idea spiacevole di lei. Poi mi capitò di vederla e di ascoltarla in vari dibattiti televisivi sulla politica, l’attualità e la cultura e ne fui piacevolmente sorpresa: ma questa donna intelligente, colta, ironica, combattiva non corrispondeva affatto all’immagine che mi ero fatta di lei sulla base delle critiche che avevano investito lei e il suo libro.
Questa donna forte e luminosa mi piaceva tantissimo, condividevo le sue posizioni politiche, la sua libertà di pensiero e finalmente feci la cosa giusta, quella che avrei dovuto fare subito, quella che raccomandavo sempre di fare ai miei allievi: incontrai la sua Accabbadora di persona e rimasi di stucco. Gli imbecilli a cui avevo dato ascolto continuavano a guardare il dito e non la luna indicata. La Murgia non entrava affatto nella vecchia diatriba tradizionale sulla esistenza o meno delle anziane donne, chiamate a porre un pietoso fine vita ai sofferenti senza speranza: il suo era semplicemente un espediente, un escamotage per parlare dell’eutanasia, del rapporto con la morte, col dolore, con l’amore, con la maternità dell’anima e non del corpo. Temi che lei ha sviluppato altrove, che ha trattato sempre e vissuto in prima persona. Accabbadora era solo una metafora, insomma, per aprire un discorso su temi difficili e importanti, senza ipocrisie.
La dedica del suo libro fu poi per me la chiave per capire molte cose: “A mia madre. Tutt’e due”, cioè a chi l’ha generata e a chi l’ha cresciuta, le ha dato amore e attenzione. Dunque la bimba del libro, trascurata dalla sua famiglia e cresciuta da una zia nubile e anziana è lei, Michela. Ed è facile comprendere il suo modo di costruirsi intorno qualcosa di meno precario ed effimero, qualcosa su cui contare: una famiglia, la sua family queer, fatta di gente amata e che la ama senza condizioni, senza riserve. E che lei ha voluto proteggere sposandone uno dei membri, che continuerà nella sua opera, tagliando fuori, così, da pretese ereditarie, ogni altra persona. E lasciando in un testamento ciò che deve andare a ognuno. E in questo è stata davvero sarda: diffidente e accorta, previdente e disillusa.
Sapere qualche mese fa che era malata e che la sua vita era agli sgoccioli, vederla andar via piano piano, immagine dopo immagine, mentre testimoniava anche e soprattutto per chi viveva il suo stesso calvario, ogni passo doloroso, mi ha davvero toccato nel profondo. Soprattutto mi ha ferito il suo sorriso. Perché era chiaro che fosse il suo scudo, la sua difesa, il suo modo di nascondere ogni debolezza, ogni paura. Era la sua maniera di esorcizzare l’abbandono, il dolore, la solitudine e anche la morte. Si può essere coraggiosi e indifesi nello stesso tempo, se si è coscienti delle proprie debolezze. Anzi: quello è il vero coraggio.
Forse ha anche ricordato quello che scrisse un altro grande sardo, Antonio Gramsci: “Voglio che ogni mattino sia per me un capodanno. Ogni giorno voglio fare i conti con me stesso, e rinnovarmi ogni giorno.” Così ha messo in sicurezza tutto quello che per lei contava, ha fatto le cose che da tempo voleva fare, sentendosi libera da ogni costrizione e poi è andata via, leggera, fra altre stelle cadenti.
Barbara Fois