A due giorni di insediamento del nuovo governo e dal “debutto in società” della neo-premier Giorgia Meloni, io non mi sento né deluso né, tampoco, tranquillizzato: era esattamente quello che mi aspettavo. L’unico elemento di conforto è il fatto che si sia, finalmente, squarciato il velo dell’ipocrisia e della narrazione relative a un presunto moderatismo del governo della Destra (a trazione post-neofascista) con relativa strada spianata verso la “pacificazione” nazionale. Né potevano tranquillizzare in tal senso i primi atti dello spoil-system istituzionale: la seconda e terza Carica dello Stato (che Dio preservi il buon Sergio in buona salute!) impersonate da quanto di più reazionario, retrivo, bigotto e divisivo si potesse immaginare. Il discorso di presentazione è stato quello di una Presidente che parla non alla Nazione, bensì solo alla sua parte politica, essendo fortemente identitario e gravemente omissivo in alcune sue parti fondamentali, finendo col risultare lontano dalla Casa Comune, dalla Bibbia laica, la nostra Costituzione, sulla quale aveva giurato poche ore prima. La quale essendo dichiaratamente antifascista, obbliga tutti i suoi rappresentanti a ribadire solennemente l’appartenenza a questo Valore Primario.
Secondo voi, puo’ bastare un “non ho in simpatia tutti i regimi dittatoriali, compreso il fascismo”? L’ennesima, isolata, abiura (e vorrei ben vedere!) delle leggi razziali e dell’antisemitismo anzi rimarca la favola secondo la quale il fascismo fu, al netto delle leggi razziali, un regime bonario e comprensivo: con errori, certo, ma con tante “cose buone”. Quando si capirà che l’adesione al valore all’Antifascismo è una condizione irrinunciabile per ambire a un ruolo di rappresentanza (prima ancora che di governo) in questo Paese? Da questa omissione discende, naturalmente, una rilettura parziale della Storia, con il riferimento (giusto) al terrorismo rosso, però “dimenticando” la stagione dello stragismo fascista che, con la collusione di pezzi dello Stato, insanguinò lo Stato negli anni della strategia della tensione con l’obiettivo, non riuscito, di una torsione autoritaria. Una lettura parziale della Storia che si ripercuote anche nella parte in cui si omaggiano le Grandi Donne della Storia d’Italia, (peraltro elencate inspiegabilmente senza cognome) tra le quali, a fronte della presenza di nomi come Casellati (Elisabetta) e Cartabia (Marta), si omette (altra dimenticanza?) quello gigantesco di Liliana Segre.
Manca dunque la parola fondativa “Resistenza” e, pur di non nominarla, si risale al Risorgimento (analogamente a La Russa, che “salta”, in maniera ridicola, dal Regno d’Italia alla Repubblica). E che dire dell’omissione, altrettanto grave dato il clima minaccioso di Guerra Mondiale, dell’assenza della parola Pace, intesa anche come semplice finalità od auspicio per la salvezza del genere umano in pericolo? Valore che (ancora) la Costituzione (art.11) impone? Niente, l’unica pace, l’unica tregua invocata è quella fiscale (v.alla voce "condono"), vecchio pallino della politica neoliberista. Strattonata per la manica (di Armani), l’indomani al Senato Giorgia cita la parola Pace, legandola però alla politica bellicista, al continuo invio di armi, consegnando definitivamente il fischietto della fine ostilità, “usque ad finem” alla buona volontà di Zelensky e del suo governo. Infine, la solita invocazione (con relativa promessa di attuazione) del “semipresidenzialismo”, non una semplice modifica, ma uno stravolgimento della nostra architettura istituzionale nel solco di una sua distorsione in senso oligarchico, se non autoritario. Direi che, senza dimenticare la lisciatina populista al pelo no-vax, possiamo fermarci qui.
Ce n’è abbastanza perché una buona metà dei cittadini elettori che non hanno votato questa coalizione, possano non riconoscersi nel programma dichiarato di questo governo, i cui primi passi traballanti vanno decisamente in un’unica, pericolosa direzione. L’opposizione ha le proprie e imperdonabili colpe, ma l’ultima, definitiva ed esiziale per il Paese, sarebbe quella di rimanere divisa e con le mani in mano. Stiamo all’erta.