Un esterno notte

di Corrado Fois - liberacittadinanza.it - 17/11/2022
Il cinema è il "come", non il "cosa". Alfred Hitchcock

Non so se, come spettatore, apprezzo in generale il lavoro di Bellocchio, che a me lascia sempre un senso di incompiuto. Di certo non apprezzo nello specifico la serie da lui realizzata ed imperniata sul caso Moro, in onda sulla Rai. Un tema spinoso, sempre vivo perché irrisolto.

Non intendo fare una recensione da cinefilo, non è il punto in oggetto, vorrei solo porre in evidenza - a partire da questo evento culturale - una questione politica, nel senso più ampio: certi temi così cruciali nella nostra recente storia vanno affrontati, se si ha il coraggio, con nettezza interpretativa. A maggior ragione se si adopera come canale un mezzo a diffusione totale come la televisione che ha – per questa sua natura universale - il compito di informare, in particolare le nuove generazioni, ed educare al ragionamento fattuale.

Se non si vuole adempiere a questo compito si tralascino temi del genere e si parli d’altro. Un’artista non è tenuto a rappresentare sempre la realtà, ma se lo fa assume un’altra responsabilità che deve rispettare.

Abbiamo alcuni esempi precisi di questo rispetto storico e di come si possa trattare con asciutta e fattuale chiarezza anche temi terribili. Cito tra tutti Conspiracy di Frank Pierson che mostra la riunione di Wannsee dove si decise la soluzione finale, la shoah. L’olocausto. Un film asciutto, mai noioso, che consegna al pubblico una visione drammaturgicamente corretta e storicamente ineccepibile dell’evento.

Non capisco perché in Italia non si riesca mai a trattare temi così duri, con la giusta durezza. La buttiamo sempre in poetica. Scorciatoia talvolta furbetta.

Marco Bellocchio è sicuramente un artista complesso, di spessore e d’esperienza ed ha realizzato opere straordinarie ed al tempo dirompenti come I pugni in tasca, con quell’indimenticabile Lou Castel. Tuttavia, secondo me tende ad esprimersi con un ricorso a volte esasperato all’astratto, all’onirico e lo fa in modo non adeguatamente estrapolato dalla narrazione. Il suo stile, quando procede in linea retta, è asciutto e fermo e dunque disorienta ancor più quando all’improvviso scivola sull’interpretazione psicanalitica ( la sua seconda grande passione ) o nella proiezione fantastica. Una modalità che può funzionare bene quando si trattano visioni personali – penso come esempio a certi momenti autobiografici di Sorrentino – e che al contrario diventa incerta e controproducente quando si affrontano temi reali, vorrei dire storici come il caso Moro.

Nell’arte cinematografica, come indicava Hitchcock, bisogna sempre stare un po' attenti al modo in cui si mescolano i come ed i cosa. Se i primi mangiano il secondo, vedi Fellini, abbiamo una certa espressività .. se il secondo mangia i primi, vedi Rosi di cui si celebrano i cent’anni, abbiamo un altro tipo di cinema. La scelta del linguaggio dipende dal contenuto che intendi veicolare. Se lo si sbaglia, il linguaggio, la comprensione diventa complessa. Quando si tratta della storia di un Paese, bisogna avere l’umiltà di spiegarsi. L’arte per l’arte si lascia ad altri temi, ad altri momenti narrativi.

Inoltre: cosa accade se il cosa è talmente tanto impicciato di suo da costringere a girare intorno ai fatti, perché altrimenti si rischia troppo? Succede che si diventa ambigui. Succede che il ricorso all’onirico non è più cifra stilistica ma una scorciatoia poetica per un dilemma politico. Per dirla chiaro: una supercazzola. Ecco, a mio avviso, questo è il punto debole di un film che per altri versi è interessante, scivola qui e là inesorabilmente nella supercazzola.

Non so quale fosse il bisogno interiore che ha spinto Marco Bellocchio ad affrontare un tema del genere difficilmente ascrivibile alla sua filmografia. Non è che manchino al catalogo di film le versioni del caso Aldo Moro. Credo che siano cinque o sei i film dedicati alla terribile vicenda. Penso a Volonté .. ad Herlitzka .. persino Castellitto ha impersonato il Professore.

Nella serie Rai la qualità attoriale è molto alta. Gifuni a momenti impressiona, una reincarnazione seconda solo al Craxi di Favino. Servillo come sempre impeccabile. Il tormentato Cossiga di Russo Alesi, l’imperdibile Andreotti di Fabrizio Contri. Tutti bravissimi. Ma la storia si attorciglia via via, il tratto estetico prevale, il come mangia il cosa, la materia già di suo complessa si perde. E l’ostinata scelta di mostrare tutte gli angoli di visuale, apparentemente aperta, non aiuta a comprendere.

Maria Fida Moro sintetizza in modo diretto .. se si fa storia è essenziale che si trattino i fatti correttamente, se invece si vuole fare narrazione poetica cortesemente si lasci fuori la famiglia ed il suo dolore. Ha ragione, che diamine!

I momenti topici della vicenda - l’assalto, il dilemma della trattativa- sono appena esplorati fattualmente. L’attacco alla scorta viene narrato senza nemmeno sfiorare il grande dubbio.. cosa volevano realmente i terroristi? Se avessero voluto uccidere tutti, incluso il Presidente, ha drammatico senso quel dissennato sparare con mitragliette imprecise di grosso calibro, ed allora il rapimento avviene come seconda scelta, di fronte ad una inattesa incolumità. Se al contrario davvero l’obiettivo è il rapimento un attacco del genere è pura follia. Come accidente si controllano cento colpi di mitra in un abitacolo di ferro dove i proiettili rimbalzano casualmente? Com’è che si uccide tutta la scorta e l’onorevole Moro resta illeso? Che cosa è successo davvero?

E’ un primo tema spinosissimo in cui pochi si sono avventurati. Poteva essere cardine di una riflessione sull’intreccio di interessi che fa da sostrato al caso Moro. Non è stato così. La scena, asciuttissima, viene superata a piè pari. Capitolo secondario secondo la narrazione. Centrale secondo chi ha cercato di capire cosa davvero fosse successo.

Il dibattito sulla trattativa, nel modo di narrare, diviene affare astratto. Esplorato superficialmente. Una scena su tutte: nel salotto di Andreotti sono presenti le forze politiche che discutono se accettare la trattativa ed aprire un negoziato ufficiale o negare ogni sponda. Nella scena, a conclusione, il segretario del PCI Berlinguer dichiara se di deve trattare si faccia senza dirlo. Siamo nel gossip. Si disse, allora ed anche dopo, che la posizione dei comunisti era doppia, ma è un falso. La posizione del Pci era precisa, condivisibile o no, ma precisa. Non si tratta perché significa dare legittimità ad un gruppo criminale.

Sarebbe stato interessante approfondire la posizione di Berlinguer, visto che Bellocchio segue anche la strada della ricostruzione rivolgendosi così ad un pubblico di giovani che molto ignorano di quei tempi e di quel fatto. La complessa scelta etica di un comunista cresciuto in una famiglia liberale con il senso dello stato assoluto, cioè moralmente e politicamente al di sopra di ogni compromesso. Scelta umanamente difficilissima perché Aldo Moro ed Enrico Berlinguer avevano un rapporto forte di amichevole stima. Dunque vi era l’opportunità di operare una profonda riflessione sulla morale e sulla responsabilità di un capo politico.

Sarebbe stato interessante ragionare sulla DC spaccata in due fazioni, una onestamente per la trattativa e l’altra che remava contro. La ricostruzione di Bellocchio sembra una variante di Todo Modo, con una narrazione articolata sulla doppiezza del potere. Corre invece una diversa interpretazione su quella divisione e parte dall’assunto che esistesse – specie in Andreotti - il fondato dubbio di un forte coinvolgimento estero, in direzione americana. Era chiaro che aprire la trattativa avrebbe condotto a scoperchiare problemi ben più complessi della vita di un uomo solo, anche così importante.

Di questi tagli di interpretazione politica non vi è traccia chiara ed evidente, ancora una volta la serie si rifugia nell’onirico e nell’impreciso.

Se nessuno dei due grandi temi - come si sono svolti i fatti e perché si è incagliata ogni trattativa - viene posto al vaglio critico oggettivo, non si comprende il valore aggiunto dell’ennesima opera sul caso Moro e non si coglie perché Bellocchio abbia scelto quel tema, trattando in modo così etereo ed artistico un momento così aspro della storia repubblicana.

Non insegna fattualmente, non approfondisce i temi aperti, non fornisce nemmeno una posizione interpretativa. Siamo spettatori della visione soggettiva di un’artista e la serie, programmata in un momento così delicato per il paese, non aiuta minimamente a riflettere ed approfondire. Lava superficialmente le coscienze.

Abbiamo invece bisogno di riflettere per archiviare con la dovuta chiarezza fatti così significativi nell’evoluzione della nostra Repubblica. Qui il cinema e la televisione mancano sempre. Basta vedere la quantità di film sulla Resistenza che vanno dall’agiografia più retorica, vedi Lizzani, alle virate piccolo borghesi tipo Piccoli Maestri di Lucchetti con questo gruppo di ragazzotti per bene, appena usciti dal coiffeur, che si agitano su e giù per le montagne senza uno straccio di interpretazione politica sulle scelte di chi ha combattuto in campo.

Mai che si veda una posizione chiara e forte sul dramma di una generazione e di chi ha dovuto e voluto prendere le armi e uccidere. O per tornare a Moro, dei convulsi anni in cui lo scontro di classe italiano si è intrecciato agli orditi della geopolitica, alla guerra fredda.

Siamo sempre all’italiana, quando si tratta di schierarsi in modo concreto la si butta in poetica trasformando un dramma storico collettivo in una somma di piccoli fatterelli personali di cui non frega niente a nessuno.

Causa tra le prime dei molti mali della nostra Repubblica è l’assenza di una forte morale laica basata sulla concreta interpretazione di ragioni e conseguenze. Un’assenza che traspare da ogni cosa, dal modo in cui opera la classe politica alla retorica di certe interpretazioni storiche.

Purtroppo a questa carenza si può ovviare solo con un forte sistema educativo e formativo, nella scuola e nella comunicazione di massa. E qui vediamo voragini.

Nella scuola si disinveste e si attuano, una dopo l’altra, stralunate riforme a partire da quella voluta da Luigi Berlinguer fino alle ultime che non hanno nemmeno spessore culturale. Nella comunicazione di massa si agisce – specie su temi di estrema rilevanza - in modo astratto quando non ambiguo.

Non è che siamo lontani dal necessario, è che proprio non ci siamo.

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