Se porte girevoli e conflitto di interessi non sono un problema per i partiti, devono intervenire i cittadini

di Daniela Gaudenzi - ilfattoquotidiano.it - 07/05/2021
Il codice di condotta adottato alla Camera non contiene nessun riferimento alle porte girevoli; quanto a quello del Senato non esiste proprio, come stigmatizzato dal Greco del Consiglio Europeo che vigila sulla corruzione

L’unanimismo che in Italia unisce tutti i partiti nella sottovalutazione del fenomeno sempre più diffuso e trasversale delle porte girevoli, ovvero del passaggio senza filtri o periodi di raffreddamento tra l’esercizio di cariche istituzionali o ruoli pubblici per ex ministri, eletti, nominati, vertici di società pubbliche e l’assunzione di incarichi dirigenziali in enti privati nonché l’esercizio di lobbying, conferma quanto sia necessario ed urgente intervenire.

Più l’esistenza del problema è negata dalla politica, che si trincera dietro affermazioni trasversalmente sconcertanti e al limite dell’irrisione nei confronti degli elettori, più i cittadini hanno modo di rendersi conto che regolare finalmente in modo serio conflitto di interessi e porte girevoli tra politica e affari è una questione che attiene molto direttamente al buon funzionamento della democrazia.

Infatti basta considerare il tenore di alcune risposte molto rappresentative della sensibilità diffusa tra rappresentanti delle istituzioni: “Se la legge lo consente tutto è normale e regolare” (Armando Siri, senatore della Lega ex sottosegretario ai Trasporti, che ha patteggiato una condanna per bancarotta ed è destinatario di una richiesta di rinvio a giudizio per corruzione)-, oppure “Questa cosa qui non la chiamo porte girevoli, le scelte di vita individuale appartengono alle scelte di vita individuale” (Valeria Fedeli, senatrice del Pd che a proposito di “scelte di vita” molto personali aveva aggiunto da ministra dell’Istruzione una laurea al suo curriculum); ed anche “Se uno è bravo e ha le capacità può essere un plus aver fatto un’esperienza parlamentare” (Giorgio Mulé, sottosegretario alla Difesa di Fi che, in ossequio al conflitto di interessi, da pasdaran berlusconiano ed ex direttore di Panorama doveva essere piazzato all’Editoria).

Ma ad anticipare la sequela delle dichiarazioni arroganti e penose era stato Matteo Renzi, la più eloquente personificazione del cumulo abnorme di commistioni politico-affaristiche che si può generare in capo ad un eletto solo in Italia. Il paese dove ad una lacunosa se non ridicola legislazione sul conflitto di interessi si somma, come evidenziato da un report di Trasparency International del 2015,l’assenza di una normativa organica sul revolving door, con una ciliegina sulla torta riguardo i parlamentari: il codice di condotta adottato alla Camera non contiene nessun riferimento alle porte girevoli; quanto a quello del Senato non esiste proprio, come stigmatizzato dal Greco del Consiglio Europeo che vigila sulla corruzione.

Ecco come si spiega la disinvoltura sprezzante del “senatore semplice di Rignano” a proposito dei suoi legami professionali, lautamente retribuiti, con i campioni del Rinascimento Arabo quando ha dichiarato: “I regolamenti permettono di fare quello che noi stiamo facendo, io continuo a farlo nel rispetto delle leggi”. Che appunto non ci sono analogamente ai codici di condotta, o sono estremamente datate, o sono farraginose e frammentarie. Oppure girano solo attorno alla natura del conflitto di interessi che non viene nemmeno sfiorato, come è avvenuto con la legge Frattini che non poteva nemmeno scalfire quello di B., o ancora non non si occupano dei politici come la legge Severino, limitata all’ambito della Pubblica Amministrazione, dove viene previsto un periodo di “raffreddamento” di tre anni per chi ha esercitato poteri apicali.

Il caso di Renzi rimane emblematico e sconcertante per l’assenza assoluta di limiti a comportamenti, che oltre a ledere il rapporto di fiducia tra elettore ed eletto consentono di fatto ad un senatore della Repubblica in carica di trasformarsi in imprenditore privato, oltre che conferenziere nonché editorialista di Arab news, al soldo del principe saudita di turno, oggi Mohammad bin Salman – ritenuto dalla Cia e dalla comunità internazionale il mandante dell’omicidio Khashoggi. Un minimo presidio di decenza a tutela delle istituzioni imporrebbe, come ha suggerito Tommaso Rodano dalle pagine del Fatto, “l’approvazione immediata di una norma che renda incompatibile la funzione di senatore della Repubblica con quella di imprenditore privato retribuito da autorità straniere”.

Ma l’aria che si respira in Senato non sembra particolarmente propizia visto che è rimasta senza risposta e rischia di essere cestinata un’interrogazione urgente del vice capogruppo del M5S, nonché capogruppo dell’Area internazionale, Gianluca Ferrara, riguardo i rapporti tra Renzi e Riyad da quando era presidente del consiglio fino al suo attuale status di membro del board della Future Investment Institut del fondo sovrano saudita, remunerato con 80mila euro all’anno. Eppure “assicurare l’indipendenza dei parlamentari e dei membri del governo e prevenire futuri casi di interferenza straniera o conflitti di interessi con paesi stranieri” dovrebbe essere un obiettivo altamente condiviso dalla seconda carica dello Stato Elisabetta Casellati come dal presidente Draghi.

Quanto poi la volontà di regolare finalmente i passaggi di ruolo che originano gravi conflitti di interessi sia “intermittente” o meglio dichiarata teoricamente e smentita nella pratica si ricava, in modo sconcertante, sul fronte quanto mai caldo e “sensibile” della Giustizia.

La ministra della Giustizia Marta Cartabia, intervenuta in Commissione Giustizia alla Camera il 15 marzo sull’annoso problema della mancanza di una normativa organica sul revolving doors in Italia, è sempre la stessa che si è ricordata di invitare le istituzioni al “massimo riserbo” sulle “vicende giudiziarie aperte” solo per redarguire la sua sottosegretaria Anna Macina, che aveva sollevato legittimi dubbi riguardo a dettagli venuti a conoscenza di Salvini sull’inchiesta in cui è coinvolto Grillo jr. La questione sottostante e rilevante è il ruolo di Giulia Bongiorno, senatrice della Lega, già ministra leghista, avvocata difensore di Salvini (che come la quasi totalità di politici e media ha pesantemente strumentalizzato il caso) nonché rappresentante della presunta vittima; un palese e gigantesco conflitto di interessi.

Il problema macroscopico è sempre quello ultraventennale della sovrapposizione e commistione tra ruoli istituzionali e difesa di interessi professionali e particolari ovvero delle porte girevoli, o peggio spalancate, tra studi legali e aule parlamentari, dove gli avvocati possono legiferare a favore dei loro assistiti. E i tempi “indimenticabili” dei pretoriani togati di B. capaci di convincere il Parlamento che il loro cliente riteneva effettivamente Ruby nipote di Mubarak non sono poi così remoti. Infatti l’avvocato Francesco Paolo Sisto ora sottosegretario della Cartabia e difensore di B. nel processo sulle escort, solo nel 2018 sosteneva “da partigiano della Costituzione” che “il processo è la vera pena da cui difendersi”. Dunque non poteva che andare alla Giustizia.

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