Che dire? È già stato detto tutto. Rete e giornali sono pieni di cronache e retroscena sul colpo tirato da Renzi alla maggioranza e al governo. L'immagine troppo semplice del Renzi demolitore e del governo tradito è stata complicata dai racconti che affermano anche una responsabilità del PD nell'incoraggiare e usare la libidine distruttiva di Renzi. Non è improbabile che ci sia del vero. Ma sembra evidente che, se intesa c'era, gli interlocutori non devono essersi capiti sul punto in cui fermarsi. Perfino le dimissioni delle ministre sarebbero state digeribili ma l'attacco personale e diretto a Conte indicato, con l'enfasi sui suoi pieni poteri, come protagonista di un danno alla democrazia e alle regole costituzionali, ha sancito la netta separazione tra il PD e il suo ex segretario. Molti hanno avuto gioco facile a dimostrare come il "personalismo" di Conte abbia solo una pallida somiglianza con l'egolatria mediatica che ha caratterizzato l'esperienza governativa di Renzi
Da parte sua, Massimo Cacciari oggi sulla Stampa si impegna a ridurre il peso della questione renziana per dare la massima rilevanza alla crisi generale della classe dirigente italiana. Allora Renzi sintomo ma non causa? Granello di sabbia trascurabile in un meccanismo già inaffidabile in origine? In una prospettiva di lungo periodo forse sì, però Cacciari, testimone autorevole, non sempre risulta credibile. La politica, ci ricorda lui stesso, va a strappi e salti e, aggiungo, lunghi periodi di noia sono interrotti da brevi attimi di concitazione decisivi. Perciò, nel breve periodo, la sottovalutazione dei danni renziani non è metodo convincente: basti ricordare che Cacciari dichiarò che, pur considerando la riforma costituzionale di Renzi una schifezza, avrebbe comunque votato Sì. In quel momento la scelta o di qua o di là non era indifferente.
Ma il ritorno alla congiuntura costituzionale degli anni 2014-2016 ci illustra una fase dei rapporti tra il PD e il suo segretario molto diversa da quella in corso. Oggi c'è un ostilità reciproca ben radicata, allora c'era una fascinazione che sembrava irresistibile. Il sindaco di Firenze era diventato segretario del partito e puntava chiaramente alla presidenza del consiglio. Una combinazione fatale e illusoria portò il PD a una vittoria strabiliante nelle elezioni europee, sopra il 40 %. L'ebbrezza della vittoria e la voglia di lasciare un segno indelebile sulla Repubblica ispirò a Renzi il disegno di una riforma costituzionale per superare il bicameralismo.
Ma la procedura necessaria è lenta e richiede il doppio passaggio nelle due Camere. Per portarsi avanti con il lavoro il governo volle una nuova legge elettorale che, in assenza della riforma costituzionale, decideva in anticipo che gli italiani avrebbero votato solo per la Camera dei deputati. Non era questione di poco conto: si modificava la Costituzione con legge ordinaria, dando per scontato che la riforma costituzionale avrebbe poi ridotto il Senato a cosa ben diversa (seguì poi una assai pasticciata Camera delle autonomie). Non contento della forzatura inedita (che il Presidente Napolitano avrebbe potuto e dovuto impedire) il governo impose sulla legge elettorale il voto di fiducia! E così passò l'Italicum, definito da Renzi un "capolavoro parlamentare". Un capolavoro tale che qualche tempo dopo fu bocciato dalla Corte Costituzionale.
Ricordo questo episodio perché rappresenta il punto di massimo cedimento del PD, condiviso allegramente dalla massima parte dei suoi dirigenti. Inevitabile seguì la riforma costituzionale, per fortuna poi cancellata dal referendum del 2016. Ma quel momento ci ricorda un partito tutto, o quasi, schierato dietro al suo leader vincente, in modo non dissimile dal partito repubblicano americano in adorazione, eccetto gli ultimissimi giorni, del suo irresistibile Trump.
A cosa serve ricordare questa congiuntura ormai passata? A considerare quanto possano essere complicati e contraddittori i rapporti tra una macchina sociale complessa come un partito, la sua classe dirigente e infine il suo leader. Ma mentre scrivo questa frase devo subito contraddirmi perché le parole usate forse non rispecchiano più la realtà. Sempre meno la triade cui ho alluso è effettiva. Sempre più è ridotta a un rapporto unidirezionale tra leader e partito (che non è più macchina sociale complessa) mentre la classe dirigente, pur composta di persone vive, appare sempre più sembianza asfittica.Il fenomeno avviene nel grande e nel piccolo (la scomparsa di Italia dei Valori non è forse dovuta all'inesistenza della sua classe dirigente?).
Torniamo all'attualità. Non è invidiabile la situazione di un partito che deve fronteggiare le mosse ostili del suo funambolico ex segretario che gliene ha fatte vedere di cotte e di crude. Prima l'ha portato alla sconfitta nel referendum, poi non ha mantenuto la solenne promessa di lasciare la politica, poi si è fatto eleggere in quel Senato che voleva degradare, riempiendolo di suoi fedelissimi, poi ha guidato una scissione portandosene dietro parte cospicua, poi ha minacciato la crisi per motivi speciosi (la prescrizione e chissà cos'altro) già nel febbraio del 2020, fermato solo dall'arrivo della pandemia, e infine incurante della ripresa drammatica di questa apre una nuova crisi irresponsabile per lucrare chissà quali vantaggi. Non sappiamo oggi se in apertura di settimana il governo riuscirà a sopravvivere. Certo se non ci riuscisse, l'ipotesi di tornare al voto, tra l'altro con una pessima legge elettorale, è nefasta sotto vari profili. Meno uno: la soddisfazione di vedere il partito di Renzi ridotto all'irrilevanza. L'ego smisurato dovrà cercare nuovi orizzonti. E chissà che non ci riesca.
Se il governo dovesse riuscire a continuare il suo lavoro, il Parlamento dovrebbe sentire il dovere primario di scrivere, dopo due leggi elettorali repellenti, una sana legge elettorale proporzionale in grado di permettere ai cittadini di esprimere la loro reale rappresentanza politica.