È più farsa che tragedia l'invasione del Congresso a Washington. Ciò non significa che non si debba prenderla sul serio. Per tanti motivi, non ultimo per la luce, o il buio, che getta sulla democrazia americana. C'è prima di tutto la responsabilità primaria e diretta di Trump. Fin dall'inizio non ha mai smesso di sollecitare i peggiori istinti di una parte del suo elettorato. Ha illuso e esortato i suoi a sentirsi gli unici depositari della libertà americana. Li ha forgiati come una propria falange dentro e contro il partito repubblicano con cui è stato eletto. Li ha lusingati come unica forza genuina per la rinascita dell'America e li ha lanciati contro il Congresso colpevole di piegarsi al broglio elettorale. (Qui si vede la differenza con i democratici: Al Gore, che a buon diritto poteva sostenere di essere vittima di brogli in Florida, non volle mettere in discussione la sospettabile vittoria di Bush per non creare la crisi istituzionale che invece Trump ha spudoratamente perseguito fin da prima del voto).
C'è poi la responsabilità del partito repubblicano che ha accettato di convivere con Trump e lo ha sostenuto fino all'ultimo giorno: il suo capo al Senato solo nelle ultimissime ore è stato obbligato a riscoprire la lealtà istituzionale ma mentre aveva impedito a Obama di nominare un giudice alla corte suprema a ben dieci mesi dalla scadenza del suo mandato ha permesso invece a Trump di far la stessa cosa negli ultimi giorni, a legislatura finita.
C'è infine la responsabilità di chi doveva gestire l'ordine pubblico e ha platealmente mancato. Di fronte a poche migliaia di manifestanti le forze di polizia sono state di una remissività impressionante. Certe volte la televisione è impietosa: abbiamo visto tutti le esili file dei poliziotti arretrare senza resistere di fronte a una pressione tutt'altro che irresistibile. C'erano punti in cui sembrava che uomini in divisa e uomini mascherati, insieme e senza lottare, si spostassero passo passo verso le scale e gli ingressi. La scusa che i poliziotti erano pochi è davvero ridicola. Perché erano pochi e mal schierati? Il motivo è ovvio e ci fa tornare a Trump. Se il presidente in carica spedisce i suoi squadristi contro il Congresso che deve fare un povero poliziotto?
Ma nessuno può dimenticare che i neri possono essere impunemente fucilati in strada senza processo mentre ai bianchi travestiti da vichinghi è permesso di sfasciare gli uffici del Senato.
Ora sarebbe lecito aspettarsi la massima severità con gli squadristi ma è facile prevedere che prevarrà la moderazione per non irritare gli animi e placare i contrasti. E così gli impuniti si convinceranno ancora di più di avere ragione.
Non è gran motivo di preoccupazione l'eventuale intenzione di Trump di costruirsi un partito personale. Se riuscirà indenne dalle varie cause, penali, civili e fiscali in cui è invischiato, lo faccia pure il suo partito: l'unico risultato sarà condannare il partito repubblicano a una lunga serie di sconfitte.
Piuttosto è il partito repubblicano che per emendarsi dovrebbe prendere l'iniziativa di rimuovere Trump dalla presidenza. Sarebbe un'azione esemplare di resipiscenza operosa e proprio per questo non ci sarà. Resta e resterà aperta la questione antica: ma non ci sarebbe un modo meno assurdo di eleggere il presidente (e le Camere)? Gli esperti della materia ci spiegano da molto tempo che l'assetto istituzionale americano e il metodo di voto sono studiati apposta per garantire l'affermazione dell'establishment qualsiasi partito prevalga. Se questa vuole essere una consolante, o sconsolante, saggezza si deve riconoscere che la vittoria stessa di Trump e il suo comportamento la invalidano. Il commento finale, forse troppo impietoso per chi spera nei democratici, è affidato a una battuta che Gore Vidal in suo divertente romanzo politico, L'età dell'oro, attribuisce a un assistente di Roosevelt: la democrazia americana è un sistema basato sull'alternanza al potere di due partiti di destra.