ERA TUTTO PRONTO
Dunque
era tutto predisposto da giorni. Da quando sul Giornale Bondi aveva
attaccato frontalmente Settis, uno degli intellettuali più
prestigiosi, chiedendogli di cessare dalle critiche rivolte alla
politica del governo in materia di beni culturali (tagli,
commissariamenti, rinvii, ecc.) e ordinandogli, in pratica, di
allinearsi o di dare le dimissioni. Non contento, il ministro aveva
pure preso di mira l’ottimo soprintendente di Pompei, l’archeologo
Pier Giovanni Guzzo, che pure ha dovuto subire in questi anni tutta
una serie di commissariamenti, calati dall’alto, uno più
fallimentare dell’altro.
Fra l’altro Andrea Carandini è a
capo degli esperti che dovrebbero «confortare» il commissario
straordinario alle aree archeologiche romane Guido Bertolaso e il suo
vice, l’assessore capitolino Marco Corsini. Non c’è qualche
conflitto di interessi in questo Carandini uno e bino?
Sarà
dunque Carandini a convocare la prossima riunione del Consiglio
Superiore che si presenta assai movimentata. Ieri, infatti, dopo la
lettura della lettera di dimissioni di Settis (nessuno può mettere
il bavaglio alla cultura) e di due altri componenti del Consiglio, e
dopo l’uscita del presidente dimissionario dalla sala, il
consigliere anziano Tullio Gregory ha deciso di concludere lì la
seduta. C’è stato soltanto il tempo di approvare,
significativamente all’unanimità, l’ordine del giorno di piena
solidarietà a Settis.
A quel punto, il ministro,
evidentemente col pieno appoggio di Berlusconi, è andato avanti come
una ruspa, ignorando anche la mediazione di Gianni Letta esortato a
ciò dalla presidente del Fai, Giulia Maria Crespi. Il governo vuole
mano libera nel ridurre al silenzio i soprintendenti, nel cancellare
vincoli e obiezioni, per poter fare quanto vuole: immettere manager
esterni nell’amministrazione, esautorare i dirigenti attuali,
rimandare sine die i piani paesaggistici previsti dal Codice
Settis-Rutelli (e già allontanati di sei mesi), autorizzare la
cementificazione dell’Agro romano, del litorale ostiense e di
quant’altro, trasferire competenze decisive al Comune di Roma e,
dopo, ad altri grandi Comuni, dividere musei, monumenti e siti
archeologici fra quelli che possono rendere e quelli invece che non
incassano soldi privatizzando la gestione dei primi.
È una
strategia che Berlusconi persegue da quando era ministro Giuliano
Urbani, il primo a proporre la privatizzazione dei maggiori musei
italiani. Quando Giuseppe Chiarante, allora vice-presidente esecutivo
del Consiglio Nazionale dei Beni Culturali, protestò, venne con
altri subito epurato e il Consiglio, di fatto, non fu più convocato.
Allora l’opposizione parlamentare si disinteressò della cosa. Che
accadrà ora?
IL TITOLO V
Ora la questione
di fondo si ripropone con maggior drammaticità, rischia infatti di
venire travolto in poche battute l’intero impianto legislativo
della tutela a favore di un decisionismo tutto politico che ritiene
d’impaccio e puramente consultivo il ruolo dei tecnici del
Ministero e delle Soprintendenze. È vero che c’è di mezzo
l’articolo 9 della Costituzione («La Repubblica tutela il
paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione»), ma
nei fatti il suo aggiramento, grazie anche al Titolo V della
Costituzione che pesa sulla coscienza del centrosinistra, verrà
perseguito con ogni mezzo. Per puntare a valorizzare quanto può
venire commercializzato.