Dopo una discussione alquanto sofferta il Consiglio dei ministri ha approvato «all’unanimità» il Documento programmatico di bilancio che traccia i confini della manovra e che notte tempo ha preso la strada per Bruxelles per la prevista supervisione. Da quel che si sa si tratta di una manovra di almeno 23 miliardi finanziata in buona parte dalla crescita del Pil. La Lega ha espresso una riserva politica sulle pensioni e Draghi si è fin qui limitato a prenderne atto. Si sa che i soldi per una riforma fiscale ci sarebbero, circa 9 miliardi, ma la legge delega volutamente generica partorita dal governo, una «scatola di principi», impedisce una valutazione nel dettaglio, anche se è già evidente che la ricerca dell’efficienza economica e del consenso dei mitici ceti medi prevale su quella della giustizia fiscale.
Viene ridotta la postazione per la riforma degli ammortizzatori sociali da 4-5 miliardi a 3, anche se pare venga incrementata quella per il reddito di cittadinanza, così impropriamente chiamato. In sostanza si conferma il quadro delineato dalla Nadef. Di fronte al bivio, in sé non nuovo, se tirare il freno della spesa pubblica o al contrario giocare con coraggio la sfida di un incremento degli investimenti e dei consumi in campi innovativi, come richiederebbe la conversione ecologica dell’economia, la scelta del governo va nella prima direzione. Poco tempo fa l’economista Nouriel Roubini, che seppe prevedere la grande recessione del 2008, aveva lanciato l’allarme sul perverso annodarsi di stagnazione e di aumento dell’inflazione, tristemente nota come stagflazione (di cui ci ha parlato su queste pagine anche Tonino Perna). Questo quadro dovrebbe consigliare una politica economica ben più coraggiosa. Invece, anziché confermare l’11,8% di deficit su Pil previsto in aprile, la Nadef si compiace di prospettare una riduzione al 9,4%, prevedendo sì una politica di bilancio espansiva fino al 2024, dopo di che si punterebbe però alla «riduzione del disavanzo strutturale e a ricondurre il rapporto debito/Pil al livello pre-crisi entro il 2030», come scrive il ministro Franco in premessa al documento governativo. Eppure solo per recuperare sull’ultimo ventennio perduto bisognerebbe avanzare dopo la fine dell’intervento del Pnrr nel 2026 del 3% ogni anno. Il rimbalzo non basta.
Per farlo bisognerebbe dare ben altro impulso alla spesa pubblica ponendo le basi per un nuovo modello sociale ed economico. Soprattutto in un quadro mondiale ove la prospettiva di una stagnazione, dopo il rimbalzo, accompagnata da una ripresa di inflazione, si fa in effetti sempre più probabile, come potrebbero segnalare l’appiattimento della curva dei tassi di rendimento tra titoli a breve e a lunga durata negli Usa, e non solo, ma anche l’improvvisa frenata della crescita cinese. È evidente che le decisioni italiane sono e saranno condizionate dall’esito del confronto europeo sul Patto di stabilità. Dombrovskis ha dichiarato che il Patto «ha funzionato bene» e che la flessibilità di cui è già dotato ha retto la tempesta, per cui non servirebbe una modifica legislativa, ma «una comunicazione interpretativa». Nelle stesse ore Gentiloni affermava che il Patto «ha ottenuto risultati ambivalenti» e dunque richiederebbe aggiustamenti pur senza cambiamento dei Trattati e delle regole fondamentali, malgrado l’entità degli investimenti necessari. Poi i due si sono accordati per una dichiarazione congiunta anodina, sterilizzando lo scontro tra falchi e colombe.
Le principali ipotesi di modifica del Patto, tra quelle ammesse al tavolo di partenza, sono sostanzialmente tre: una revisione dell’entità annua della riduzione del debito sopra il 60%; una sorta di patto à la carte, proposto tra gli altri da Jean-Paul Fitoussi e benvisto dal ministro francese Bruno La Maire, per cui ogni paese, sulla base di una certificazione di un organismo indipendente (come il nostro Ufficio parlamentare di bilancio) stabilirebbe un proprio piano di rientro dall’extradebito, sottoposto all’approvazione della Commissione e del Consiglio europei; una revisione, considerata la più improbabile, del tetto del 60% del rapporto debito/Pil, vista la sua inadeguatezza, pur senza modificare i Trattati ma solo i protocolli, con l’unanimità degli Stati, ma saltando la ratifica dei parlamenti nazionali.
Su questa discussione, già troppo timida in partenza, peserà la formazione e il programma del nuovo governo tedesco. Non c’è da stare allegri. Scholz ha recentemente detto che il Patto «sarà utile anche nel futuro» e se il leader dei liberali Lindner diventerà ministro delle finanze in una «coalizione semaforo» c’è da aspettarsi un ulteriore irrigidimento.
Il dibattito intergovernativo nell’Unione appare arretrato non solo rispetto all’andamento dell’economia reale, ma persino rispetto alle posizioni di personalità non ascrivibili al credo keynesiano. L’ex ministro Giovanni Tria è stato netto nel dire, ora che ha le mani libere, che il fiscal compact era sbagliato fin dall’inizio. Per Klaus Regling, braccio destro di Theo Waigel il «padre dell’Euro», ora direttore del famigerato Mes, la regola della riduzione dell’extradebito al 60% nel giro di venti anni (che costringerebbe l’Italia a surplus di bilancio del 6/7% annui) è del tutto irrealizzabile e insensata. Dietro allo scontro su cifre e algoritmi, si nasconde il grande tema della conversione ecologica dell’economia.