Sono un vecchio medico internista in pensione, ho lavorato per molti anni all’Ospedale di Niguarda di Milano, uno dei più completi e migliori ospedali pubblici italiani, reso tale anche dalle grandi lotte ospedaliere degli anni Settanta, che hanno contribuito a umanizzare e modernizzare, in buona parte d’Italia, gli ospedali.
Negli ultimi cinque anni di attività medica ho voluto fare anche l’esperienza di medico di famiglia, per vivere e capire i percorsi delle persone malate, percorsi spesso poco considerati in ospedale, anche (ma non solo) per l’urgenza di dare una risposta terapeutica. Volevo condividere e capire le risposte date dalla “Medicina di territorio”, della cui carenza oggi si parla molto, spesso con ipocrisia, perché, nel progressivo svilupparsi dell’industria della salute negli ultimi Cinquanta anni, sono stati e sono fondamentali solo gli ospedali, pubblici e privati, dove girano un sacco di soldi e grosse fette di potere.
All’inizio degli anni Ottanta, con l’attività politica e sindacale, ho avuto la fortuna di conoscere altri settori e operatori della Sanità, in particolare in Psichiatria (democratica) e nella Medicina del lavoro, che mi hanno aperto la mente sulla rilevanza assoluta dei fattori ambientali e sociali come cause di moltissime malattie. Allora ho iniziato a sentir parlare di prevenzione, quella primaria, l’unica vera, non quella secondaria, come tanti furbi “industriali” della Sanità chiamano la Diagnosi precoce.
Un’altra enorme fortuna l’ho avuta negli ultimi venti anni, vivere periodi anche lunghi negli accampamenti dei contadini del Movimento Senza Terra in Brasile – Mst (e anche in altri paesi dell’America latina), e poi mantenere rapporti continui con realtà di piccoli agricoltori in Italia. Tramite loro ho progressivamente capito il grave danno quotidiano rappresentato dalla produzione e dal consumo di cibo industriale, per la nostra Salute e per la Salute del Pianeta (determina circa il 50 per cento delle emissioni di gas sera).
Dall’inizio della pandemia Covid-19, con gli altri amici del Comitato Amigos Mst Italia, abbiamo ragionato sulle cause di questa pandemia, ben conoscendo la filiera degli allevamenti intensivi (che si regge anche sul disboscamento di tutte le foreste brasiliane) e con l’espansione massiva di monoculture Ogm per produrre foraggi (soia, mais, ecc.), che vengono esportati in Europa e Cina.
Come Comitato abbiamo quindi scritto un breve testo: “Per un mondo senza pandemie, una nuova relazione con il Pianeta. Riforma Agraria ecologica subito!”. Partendo dall’analisi della situazione in Brasile e Italia, abbiamo analizzato le vere cause dello spillover e del contatto umano con nuovi virus (per ultimo il Covid-19): la deforestazione, gli allevamenti intensivi, l’urbanizzazione crescente insostenibile e le orribili megalopoli nel mondo. Abbiamo poi sottolineato come questi virus fanno ammalare, e soprattutto morire, persone con una o più malattie croniche (come si è sempre più evidenziato anche in Italia), con il maggior numero di morti tra gli anziani, persone che hanno “dovuto” respirare la pessima aria della Pianura Padana, l’aria peggiore dell’Europa dell’Ovest.
In questi ultimi mesi, dominati dalla paura seminata dal bombardamento mediatico e da misure soltanto emergenziali, c’è stato poco spazio, anche sui giornali di sinistra, per parlare di cause reali e di misure efficaci.
Negli ultimi giorni mi sono stati segnalati due testi, di estrema importanza: l’articolo Offline: Covid-19 is not a pandemic di Richard Horton, caporedattore di Lancet (una tra le più importanti riviste medica internazionali); la presentazione di un ricercatore brasiliano di un libro di Rob Wallace, Dead Epidemiologists: On the Origins of Covid-19. Vale la pena leggerli integralmente, entrambi raccontano e fanno considerazioni poco note.
L’articolo di Richard Norton è rivoluzionario soprattutto nel linguaggio. Scrive, tra l’altro, Norton:
“Due categorie di malattie interagiscono all’interno di popolazioni specifiche: l’infezione con la sindrome respiratoria acuta grave coronavirus 2 (Sars-CoV-2) e una serie di malattie non trasmissibili (Ncd). Queste condizioni si raggruppano all’interno dei gruppi sociali, secondo modelli di disuguaglianza profondamente radicati nelle nostre società. L’aggregazione di queste malattie, su uno sfondo di disparità sociale ed economica, esacerba gli effetti negativi di ogni singola malattia. Covid-19 non è una Pandemia. È una Sindemia“.
L’autore spiega poi come le sindemie sono caratterizzate da interazioni biologiche e sociali che aumentano la suscettibilità di una persona ad avere danni alla propria salute. Scrive Norton:
“La conseguenza più importante nel vedere Covid-19 come una sindemia è sottolineare le sue origini sociali. La vulnerabilità dei cittadini anziani; le comunità nere, asiatiche e le minoranze etniche; e i lavoratori chiave, in genere mal pagati e con meno protezioni sociali, indicano una verità finora appena riconosciuta, cioè che non importa quanto sia efficace una terapia o protettivo un vaccino, una soluzione puramente biomedica al Covid-19 fallirà… Considerare Covid-19 una sindemia porterà a una visione più ampia, che comprenda istruzione, occupazione, alloggio, cibo e ambiente…”
In un articolo del manifesto del 20 novembre Paolo Vineis, ordinario di epidemiologia all’Imperial College di Londra e vicepresidente del Consiglio Superiore di Sanità, ha condiviso questa analisi e ha proposto di studiare la trasmissione delle malattie con una lente più complessa di quella dominante nel mondo medico, che cerca l’origine delle patologie principalmente in alterazioni molecolari: “Il Covid-19 ci ha aperto gli occhi sul fatto che salute e malattia vengono da lontano, dipendono dalla società e dalla sua struttura produttiva. Il virus ci ha convinti della necessità di uno sguardo più complesso sulle malattie”.
La presentazione del ricercatore brasiliano Allan Rodrigo de Campos Silva (Università di Campinas-San Paolo) dell’edizione brasiliana del libro di Rob Wallace, Dead Epidemiologists: On the Origins of Covid 19 (La fine degli epidemiologi: sulle Origini di Covid-19), approfondisce le origini ambientali del virus, a cominciare dalla “globalizzazione delle pratiche predatorie dell’agrobusiness, più precisamente nell’allevamento intensivo, oggi caratterizzato da un vero e proprio sistema di produzione patogeno integrato all’allevamento di maiali e polli”.
Wallace risale all’epidemia di Ebola in Africa nel 2013 quando
“la deforestazione delle piantagioni di palma per la produzione di petrolio (ingrediente essenziale per la produzione di alimenti trasformati) avrebbe attirato popolazioni di pipistrelli, depositari naturali di vari virus, come l’Ebola, verso le piantagioni di palme, aumentando così l’interfaccia tra i lavoratori rurali e i potenziali vettori del contagio dell’Ebola. D’altra parte, la produzione di nuove periferie urbane in interfaccia con l’ambiente rurale avrebbe garantito l’approvvigionamento costante di un gruppo di esseri umani suscettibili. Allo stesso tempo, l’agribusiness, con il land grabbing, l’accaparramento della terra, espropria le popolazioni e distrugge aree forestali, zone umide e corsi d’acqua, eliminando così le barriere ecologiche alla diffusione dei patogeni…”.
Secondo Wallace l’allevamento intensivo svolge oggi un ruolo fondamentale nella proliferazione di vari agenti patogeni, come virus e batteri. Inoltre,
“il sistema di monocoltura genetica degli animali riduce la resistenza immunologica ai virus e batteri, ed è in grado di contaminare stalle, fattorie e intere regioni, determinando in molti casi una macellazione di massa, per impedire la diffusione di un’epidemia in una regione o in tutto il mondo. Le grandi aziende lo sanno da tempo, ma anche gli investimenti in biotecnologia e biosicurezza non sembrano in grado di impedire la proliferazione di epizoozie nei macelli di tutto il mondo. E i virus, con le loro continue mutazioni, a un certo momento possono trovare una via di infezione nell’uomo”. Intanto, “con la distruzione delle zone umide in tutto il pianeta, prosciugate per farne campi di coltivazione, stormi di uccelli iniziano a foraggiarsi con i rifiuti delle fattorie, di grani e di canna da zucchero, aumentando il contatto tra uccelli migratori selvatici e avicoli d’allevamento…”.
Wallace indaga le origini del Sars-Cov-2 facendo riferimento ai circuiti zootecnici regionali del Sud-est della Cina e al degrado ambientale di quelle aree. Dagli anni Novanta, la neoliberalizzazione dell’economia del paese ha trasformato i paesaggi agroecologici cinesi in modo radicale, rendendo tutto il Sud-Est della Cina, un epicentro per la produzione di nuovi agenti patogeni, “una rotta che il Brasile sta imitando in tutto”. In un’altra recente intervista Wallace ha ricordato come i vaccini possono essere utili ma occorre intervenire perché al Covid-19 non segua Covid-20, Covid-21…. Eppure tutto questo viene negato dall’agrobusiness internazionale, come scrive l’economista Lucile Leclair su Le Monde Diplomatique (In nome della Biosicurezza).
Cosa avverrà in futuro? Molto dipenderà dalla coscienza e dalle scelte di chi vive in città, di chi compra cibo ogni giorno, se si vorrà alleare con i piccoli contadini contro quell’agrobusiness che li vuol distruggere del tutto. Indubbiamente va ridotto il consumo di carne mondiale. In Italia dobbiamo denunciare con forza che i grandi allevamenti di maiali (3-4 mila in media in ogni allevamento delle Provincie di Brescia, Cremona, Parma e Reggio) che rendono pessima l’aria di tutta la Pianura Padana e provocano buona parte delle malattie croniche degli abitanti, rendendoli più suscettibili alle infezioni, come Covid-19 ha dimostrato. Pretendere la chiusura degli allevamenti di quelle dimensioni può essere una grande lotta mondiale, fatta con un’alleanza tra piccoli contadini e cittadini consumatori.