Sotto la banca il clima crepa

di Marco Bersani - attac-italia.org - 24/02/2024
Mentre l’Unione Europea non perde occasione di declamare la necessità di invertire la rotta dei flussi economici destinati ad attività climalteranti, il suo sistema finanziario continua imperterrito a sostenere i combustibili fossili e i settori ad alta intensità di carbonio.

Nei sette anni dalla firma dell’Accordo di Parigi, le banche con sede nell’Unione Europea hanno erogato 327,15 miliardi di dollari in prestiti e sottoscrizioni a favore di combustibili fossili (239,63 mld) e attività agricole industriali nel Sud globale (87,42 mld). Con una media annuale, fra il 2016 e il 2022, di 46,74 miliardi di dollari a fronte dei soli 11,26 miliardi di dollari (meno di un quarto) destinati alla mitigazione della crisi climatica.

Di fatto, mentre spergiurano in ogni spot pubblicitario di essere determinate nell’affrontare la crisi climatica, condannano le comunità di Africa, Asia e America Latina alla mancanza di terra, alla deforestazione, all’inquinamento dell’acqua e alla privazione dei diritti umani fondamentali.

In questa classifica-killer troviamo al primo posto BPN Paribas (49,55 mld di dollari), seguita da Société Générale (41,7 mld), Crédit Agricole (37,57 mld) e ING Group (21,14 mld). Vengono subito dopo le “nostre” Unicredit (18,40 mld) e Intesa San Paolo (11,95 mld).

E’ cosi che proliferano nel mondo le cosiddette “carbon bombs”, ovvero quei progetti di estrazione di gas, petrolio e carbone che, se avviati, comporterebbero un aumento di gas serra superiore al miliardo di tonnellate di CO2 equivalente (per capirci: tre volte le emissioni prodotte dall’Italia in un intero anno).

Attualmente, secondo una ricerca dell’Università di Leeds, pubblicata sulla rivista Energy Police, esistono nel mondo 425 di questi progetti. Solo Deutsche Bank ne sta finanziando, direttamente o indirettamente, ben 83, mentre 59 ricevono fondi da BPN Paribas.

Se da chi finanzia passiamo a chi è finanziato, il primato di chi riceve più risorse economiche dalle banche europee è della italianissima ENI, controllata dal MEF, sia direttamente, sia attraverso la quota di Cassa Depositi e Prestiti.

Dal 2016 al 2022, ENI ha ricevuto da UniCredit 4,01 miliardi di dollari, da Intesa Sanpaolo 3,45 miliardi di dollari, 3,19 mld da BNP Paribas e 3,03 mld da Crédit Agricole.

Nonostante ripeta compulsivamente di voler trasformare la propria attività per raggiungere la “carbon neutrality entro il 2050”, in realtà ENI continua a dare priorità agli investimenti in petrolio e gas e nel 2023 è stata uno dei maggiori produttori al mondo, alla guida di un’ulteriore “corsa al gas” in tutto il continente africano e in particolare in Egitto, Mozambico, Angola e Libia.

Se questo è il quadro, varrebbe forse la pena di sospendere tutte le infinite diatribe sui gruppi di attiviste/i che con un po’ di vernice (lavabile) cercano di richiamare l’attenzione sulla drammaticità della crisi climatica in atto, e porre finalmente al centro della discussione politica e culturale una semplice verità: per decarbonizzare la nostra economia è fondamentale ridurre le emissioni drasticamente; per ridurre le emissioni a sufficienza da scongiurare il superamento degli 1,5 gradi è fondamentale mantenere sottoterra almeno il 60% del gas e del petrolio esistenti e il 90% del carbone; per mantenere sottoterra questa quota di combustibili fossili, le aziende del comparto dovranno rinunciare a miliardi di dollari di profitti; perché ciò avvenga bisogna impedire alle banche di continuare a rifocillarle.

Non sembra così difficile da capire. Né per le banche, né per le imprese, tantomeno per i governi.

Toccherà farglielo presente, smettendo di delegare il compito ai gruppi di attiviste/i di cui sopra.

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