Meritoriamente, il sito roars.it pubblica le bozze di intesa datate 16 maggio, che il Dipartimento affari giuridici e legislativi aveva colpito e affondato nell’appunto consegnato al presidente del Consiglio Conte. Tre corposi faldoni, di 68 pagine per Veneto e Lombardia, e 62 per l’Emilia-Romagna. La sintesi è quanto mai semplice: a meno di una radicale riscrittura, con l’approvazione delle intese lo Stato in queste tre regioni – l’Emilia-Romagna segue le altre a ruota – sostanzialmente chiude i battenti, sostituito da una sorta di aggregazione di staterelli indipendenti. La Repubblica una e indivisibile è consegnata all’archivio della storia.
L’unità ha fondamenti immateriali e materiali. Quelli immateriali sono essenzialmente culturali, e sono primariamente affidati alla scuola, nazionale e pubblica. Nelle intese con Veneto e Lombardia viene smantellata. Di questo si parla altrove in questa stessa pagina. Ma altrettanto importanti sono i fondamenti materiali: le infrastrutture, la distribuzione delle risorse pubbliche.
Quanto alle infrastrutture, lo shopping è completo. A una prima lettura della bozza per il Veneto tra le parti già concordate e quelle ulteriormente chieste dalla regione, ad esempio, troviamo: trasferimento al demanio regionale della rete stradale nazionale; subentro nelle concessioni delle tratte comprese nel territorio veneto della rete autostradale nazionale, con trasferimento al demanio e al patrimonio indisponibile e disponibile della Regione alla scadenza delle concessioni; trasferimento al demanio della Regione degli aeroporti nazionali; subentro nelle concessioni statali di rete ferroviaria complementare; approvazione delle infrastrutture strategiche di interesse regionale nonché, di intesa con il governo, di quelle strategiche di competenza statale, ivi inclusa la relativa procedura di Via.
Sulle risorse, rimane il meccanismo di privilegio fiscale che parte da una spesa storica distorsiva a danno del Sud, passa per un transitorio di Lep (livelli essenziali delle prestazioni) e fabbisogni standard mai fin qui stabiliti perché avrebbero comportato – e comporterebbero anche oggi – un inatteso e politicamente insostenibile riequilibrio a favore del Mezzogiorno, e approda a un valore nazionale medio che la ministra Stefani ha taroccato riferendolo alla sola spesa delle amministrazioni centrali. Andava invece legato alle complessive risorse pubbliche destinate al territorio, per cui il Nord è in cima alle classifiche. Si prevedono anche numerose riserve a favore della regione. Un indiscutibile privilegio fiscale.
Si aggiungono poi infinite altre cose: assunzione di vigili del fuoco, rischio sismico, regionalizzazione delle soprintendenze, programmazione di quote di ingresso di cittadini extracomunitari, previdenza integrativa, sostegno alle imprese, ricerca aerospaziale e quant’altro. La domanda è: cosa ha a che fare tutto questo con le «forme e condizioni particolari di autonomia» di cui all’articolo 116, comma 3 della Costituzione? Ovviamente, nulla.
Alla Padania secessionista di Bossi si è sostituito un «grande Nord» separatista. Un continuum di regioni composto da tre speciali (Friuli, Trentino, Val d’Aosta) e da cinque ordinarie che vogliono raggiungere un regime di simil-specialità attraverso l’articolo 116 (Veneto, Lombardia, Piemonte, Liguria, Emilia-Romagna). Una via incostituzionale per il miraggio di agganciarsi all’Europa forte, a spese del resto del paese. Una via sulla quale un effetto domino inevitabile sulle altre regioni frantumerebbe l’unità.
Il presidente della regione Emilia-Romagna Bonaccini dice di temere che l’autonomia diventi una barzelletta. Ma è lui, con gli altri due governatori, a voler rendere l’Italia unita una barzelletta.