La tragedia della pandemia ci ha posto di fronte alle ragioni ultime della convivenza: ciò che porta a costituirsi in società è, prima di ogni altra cosa, la salvaguardia della vita e la tutela dei diritti ritenuti fondamentali (salute, lavoro, assistenza). Inoltre, ci ha ricordato che alla base del contratto sociale vi sono dei valori etici, quali la dignità e l’eguaglianza. Nei confronti dei poteri costituiti ci ha ricordato, infine, che essi devono porsi al servizio dei diritti, non sono invece strutture di potere in lotta tra loro. Se utilizziamo questa griglia di giudizio appare in tutta la sua chiara evidenza la distanza che separa la realtà del vivere dall’agire politico, ancora fermo ai giochi di palazzo.
Da un lato, centinaia di morti al giorno, l’impossibilità di curarsi (e non solo nel caso di covid), la precarietà delle condizioni materiali (economiche, ma anche esistenziali); dall’altro, le polemiche scomposte, i “posizionamenti” dei vari soggetti politici, la ricerca di visibilità mediatica, l’acidità della battuta sprezzante. Stiamo assistendo al tramonto della politica come “governo della polis” e al trionfo della autonomia autoreferenziale dei soggetti governanti.
Lasciamo ora da parte la questione dei poteri centrali (Governo e Parlamento) – su cui più volte ci siamo soffermati – guardiamo la vicenda dei poteri locali. Ciò che è emerso in questi mesi “eccezionali” è che, a fronte della evidente difficoltà di tutte le Regioni nel tutelare i diritti fondamentali nei loro territori, si è assistito all’accentuarsi della polemica strumentale. Il riflesso istituzionale – dei presidenti-governatori – è stato quello di porsi come controparti del governo centrale. Prese di posizione oscillanti, tra richieste di maggior rigore e insofferenza per le limitazioni imposte, ma sempre rivolte a rivendicare l’intero spazio di decisione politica entro i propri confini. Con meno clamore, ma analoga convinzione persino i sindaci hanno provato a sperimentare una sorta di sovranismo comunale. L’Italia è parsa divisa in “mille piccole patrie”.
Ci ha provato il Capo dello Stato a ricordare che prima della rivendicazione delle competenze, gli amministratori locali dovrebbero pensare all’unità nazionale, poiché è questa che oggi è in gioco. Ma l’istinto è prevalso: tanto più aumentavano i morti, quanto più i “governatori” scaricavano le proprie responsabilità su altri, non riuscendo a sentirsi parte di un destino comune. Nessuno è senza colpe e dal centro si è commesso più di un errore. Ma in piena pandemia aver visto Regioni stabilire regole sulla sicurezza e sulle libertà fondamentali in contrasto con quelle definite in sede nazionale dimostra come si sia giunti al limite di rottura della unità ed indivisibilità della Repubblica.
Sul come è potuto accadere, la principale ragione è da rinvenire nell’affermarsi di un modello autonomista di stampo “competitivo” assai lontano da quello originariamente disegnato in Costituzione, che è di natura “solidale”. Una trasformazione che viene da lontano, ma che ora, nel profondo della crisi più grave, rischia di mettere in discussione i principi supremi della convivenza. Basta guardare indietro per comprendere la parabola del regionalismo italiano.
A lungo, dopo l’istituzione delle Regioni ordinarie, la sinistra provò ad affermare uno “Stato delle autonomie”, puntando sulla partecipazione, sulla centralità delle assemblee e dei Consigli regionali, provinciali, comunali, circoscrizionali. Era il principio di “differenziazione”, non quello di “competizione” a legittimare l’attribuzione delle competenze agli enti locali, i quali operavano dimostrando una diversa capacità di amministrare. Il “modello emiliano” fu il vanto della sinistra perché meglio di altri riusciva a dar prova di buona amministrazione assicurando i servizi pubblici locali. Questa prospettiva fu però abbandonata dai suoi stessi artefici.
La svolta per le Regioni si ebbe nel 1999 quando, con legge costituzionale, si decise di abbandonare la strategia partecipativa e consiliare per abbracciare quella dell’elezione diretta del vertice dell’esecutivo regionale (seguendo l’antecedente del 1993 che aveva riguardati i sindaci). Poi, nel 2001, la riforma del Titolo V perfezionò la scelta di sistema. Una riforma pasticciata, assunta sotto la pressione delle pulsioni secessioniste, senza una visione unitaria. Non si istituì nessun organo politico di raccordo tra Stato e Regioni (rinunciando al Senato delle Regioni); non si chiarì l’ambito delle rispettive competenze, ci si limitò ad una confusa elencazione e ad invertire il criterio di imputazione.
Ma la rinuncia a imporre un qualsiasi modello di regionalismo emerse nella scrittura della norma sul c.d. regionalismo differenziato: permettendo ad ogni Regione su propria iniziativa (entro un procedimento complesso e lasciato non definito) di completare il proprio ambito di competenze. Nulla a che vedere con il regionalismo asimmetrico che opera in Spagna e che poggia su consolidate ragioni di garanzie delle differenze culturali e territoriali. Nel nostro caso prevalse la decisione politica del “non modello”, lasciando inevasa la questione di fondo relativa a quale regionalismo.
Ci ha pensato la storia a dare risposta: i Presidenti eletti sono diventati “Governatori” e le Regioni piccoli Stati in lotta tra loro per accaparrarsi risorse e poteri. Non c’è stato più spazio per la solidarietà, ma solo per la competizione. Un tarlo che, quando è arrivata la vera emergenza, ha finito per ostacolare la definizione di una necessaria politica unitaria di salvezza nazionale.
Se vogliamo rialzarci, potremmo iniziare dal punto più basso della storia, fermando ogni pulsione separatista insita nel regionalismo differenziato, per ricordare che la Repubblica “riconosce e promuove le autonomie locali” al fine di assicurare i diritti fondamentali delle persone e non permette la secessione dei ricchi.