Professoressa Groppi, mi rivolgo a lei come esperta di diritto costituzionale e di diritto comparato: cosa ci può dire rispetto a quello che sta accadendo in queste settimane?
Sono tempi difficili, come tutti i momenti di “emergenza”. Ovvero, come ci dice la parola stessa, quando si presentano all’improvviso (spuntano fuori, saltano fuori) problemi imprevisti, per i quali non eravamo attrezzati.Possiamo (nel senso di “sappiamo”) prevedere, più o meno, sulla base dell’esperienza, quanti saranno, il prossimo anno, i casi di tumore al seno, o gli incidenti stradali che implicano danni cerebrali, o quanti bypass coronarici saranno richiesti, ma non possiamo-sappiamo prevedere un’epidemia. O, almeno, non abbiamo potuto-saputo farlo: è un dato di fatto (non entro nella questione: “sarebbe stato possibile prevederlo?” che ci porterebbe molto lontani).
Questo mi pare il punto di partenza. Potremmo dire, con il Qoelet, che c’è un tempo per ogni cosa: un tempo per la normalità, un tempo per l’emergenza.
Ed è proprio qui, nell’emergenza, che la democraziaviene sfidata.
La democrazia nel senso in cui la intendiamo noi oggi, come democrazia costituzionale, cioè una forma di organizzazione politica nella quale sono garantiti i diritti dell’uomo e dove il potere è limitato dal diritto. Dove cioè i “governanti” (in primo luogo il governo e la maggioranza politica) devono sempre agire secondo procedimenti regolati da norme giuridiche, a partire dalla costituzione: è questo il principio base del “rule of law”.
Infatti, se in tempi normali questo fragile meccanismo riesce, più meno, a funzionare-cioè ad assicurare un quadro di convivenza pacifica in cuii diritti sono garantiti e il potere agisce nelle forme previste (spesso tra l’altro lunghe e macchinose)-nell’emergenza tutto ciò è assai più difficile. Può capitare che ci sia da adottare decisioni rapide, tempestive;e spesso accade che non si riesca a far convivere al meglio tutti i diritti e gli interessi in gioco, senza che nessuno di essi prenda il sopravvento, diventi“tiranno”. Può essere necessario, per il tempo in cui dura l’emergenza, comprimere alcuni diritti per salvaguardarne altri. È quel che stanno facendo molti Stati in questi giorni, limitando la libertà di circolazione, di riunione, di impresa e persino il diritto alla vita familiare, per proteggere il diritto alla salute. Può essere necessario insomma uscire dai binari della normalità. La parola magica, la shibbolet come direbbero i maestri talmudici,è “deroga”, che apre le porte verso un terreno assai insidioso, ma a volte inevitabile: quello, appunto, della legislazione di emergenza.
Detto questo, è evidente che occorre sgombrare subito il campo da alcune affermazioni che circolano in questi giorni: le decisioni adottate in paesi autoritari, come la Cina o l’Iran, non ci interessano. Lo ripeto, sono tre paroline: NON CI INTERESSANO. Nel senso che le democrazie si muovono in una dimensione completamente diversa nel rapporto tra potere pubblico e diritti soggettivi. L’emergenza non sposta di una virgola il problema: così come le limitazioni della libertà di espressione, la deportazione delle minoranze linguistiche, la pena di morte, gli arresti arbitrari che tali paesi applicano in tempi normali non ci interessano (cioè, non ci interessano come fonte di ispirazione: di sicuro ci interessano per criticarli e condannarli), lo stesso vale per i tempi di emergenza.Quando leggo, persino su un blog di giuristi, parole come queste: “Rimpiango di non CONSULTA ONLINE193essere in Cina dove si può chiudere tutto con l’esercito. Perché questo ci vorrebbe”, mi viene un colpo.Sono due secoli di costituzionalismo, cioè di lotte contro la tirannide,spazzati via in un istante.
Va bene quel che dice, che non possiamo ispirarci agli stati autoritari. Ma allora come può rispondere una democrazia, come ha detto lei, “costituzionale”, alle situazioni di emergenza? E più specificamente a questa emergenza, che sembra così diversa da altre, ad esempio quelle conseguenti a un terremoto, o anche ad attentati terroristici.
Le democrazie hanno messo a punto, in questi ultimi decenni, gli strumenti per rispondere a molteplici situazioni inattese, caratterizzate da “straordinaria necessità e urgenza”, per riprendere le parole della Costituzione italiana, nell’articolo 77. Un grande banco di prova è stata la lotta al terrorismo internazionale, ovvero le misure emergenziali che sono state adottate dopo gli attentati dell’11 settembre.
In quell’occasione, si è assistito alla tendenza dei governi, a partire dagli Stati Uniti, ad intervenire pesantemente perlimitare i diritti, con il supporto generalizzato dell’opinione pubblica: in quel caso erano la libertà personale, la privacy, il diritto a un processo equo, in nome dell’interesse pubblico alla sicurezza, spesso declinato come un vero e proprio diritto dei cittadini. Fortunatamente, il sistema ha tenuto, perché le democrazie hanno dimostrato di avere la capacità di reagire (gli anticorpi potremmo dire, per restare in tema), in primo luogo un potere giudiziario indipendente. Sono stati i giudici, Stato per Stato, pezzetto per pezzetto, che hanno smontato le misure adottate, direi sulla base di tre principi. Innanzitutto, la temporaneità: le misure di emergenza debbono rimanere circoscritte nel tempo, essendo collegate alle situazioni straordinarie che ne sono all’origine. Non si può, con la scusa dell’emergenza, introdurre modifiche permanenti, durature nell’ordinamento. In secondo luogo, la proporzionalità: le misure adottate debbono essere finalizzate a risolvere l’emergenza e debbono essere proporzionate rispetto alle situazioni di fatto, limitando nella misura minima necessaria i diritti che sono coinvolti. In terzo luogo, il rispetto delle procedure previste dall’ordinamento, ovvero della separazione dei poteri,del rule of law,della trasparenza dei processi decisionali.
Ecco, a prescindere dalle specifiche disposizioni presenti in ogni ordinamento, esiste questo nucleo di principi comuni che connotale democrazie costituzionali anche nelle situazioni di emergenza.
Mi pare che tali principi possano aiutarci anche nella situazione attuale. Nella quale la specificità è dettata a mio avviso da due elementi, che enfatizzano quel chein altre emergenze, come quella terroristica, resta a volte sottotraccia.
Da un lato, siamo di fronte a una minaccia che tocca non soltanto un interesse pubblico, ma uno specifico diritto, quello alla salute, riconosciuto come tale a livello internazionale e nazionale, strettamente collegato con un diritto considerato come assoluto (ovvero non bilanciabile con altri), cioè il diritto alla vita.
Dall’altro, alcune delle decisioni politiche finalizzate a garantire tale diritto (non tutte: ci sono anche obbligazioni positive, cioè di fare: costruire ospedali, assumere medici, acquistare respiratori, distribuire mascherine, intervenire a sostegno dell’economia, prevedere sussidi ecc.), quelle volte a ridurre il rischio di contagio, ispirate al principio di precauzione(cioè di prevenzione o mitigazione delle conseguenze negative di una situazione di fatto),possono essere valutate, nei loro contenuti, soltanto in riferimento a conoscenze scientifiche che restano al momento assai contraddittorie e limitate.
Pertanto, tornando alle tre garanzie delle quali parlavo prima, è alquanto difficile valutare la proporzionalità delle misure adottate. Oltre a ribadire la necessità della temporaneità e del rispetto dei procedimenti, quel che si può chiedere in questo momento è che, ad ogni modo, benché esistano dissensi tra gli esperti, le limitazioni dei dirittisiano sempre e comunque motivate sulla base di conoscenze tecnico-scientifiche adeguate e riconosciute.
La Costituzione italiana presenta qualche specificità rispetto alle altre costituzioni democratiche, riguardo alle emergenze?
La Costituzione italiana, proprio per il momento storico in cui fu elaborata, non contiene previsioni sugli stati di emergenza. Ha una norma specifica, l’articolo 78, solo per lo stato di guerra, che è però una situazione del tutto diversa e non può essere pertanto invocata nelle circostanze attuali. È una lunga discussione, che va avanti da molti anni, tra chi ritiene che debba essere costituzionalizzata l’emergenza e chi invece vede tale modifica come inutile o addirittura pericolosa.
La Costituzione prevede che, normalmente, i diritti possano essere limitati soltanto con una legge, cioè con un atto del parlamento. In casi straordinari, è previsto un atto del governo, emanato dal presidente della Repubblica e che deve essere convertito in legge entro sessanta giorni dal Parlamento, il decreto-legge, che può intervenire a limitare i diritti. A ciò si aggiungono i principi di cui parlavo sopra, sviluppati anche dalla giurisprudenza costituzionale italiana, in particolare la temporaneità, ragionevolezza e proporzionalità delle misure limitative. Inoltre, alcune indicazioni si ricavano dai trattati internazionali in materia di diritti sottoscritti dall’Italia, a partire dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che si muovono nella stessa direzione. È tutto. Per il resto, si ricorre a quanto previsto dalla legislazione sulla protezione civile e sulla sanità pubblica, che attribuiscono competenze al governo, ai singoli ministri, ai presidenti di regione, ai prefetti, ai sindaci. Di fronte all’attuale emergenza, sta venendo alla luce, mi verrebbe da dire che sta “emergendo”,in maniera più netta che in passato l’insufficienza di questo quadro normativo, per quanto riguarda i procedimenti e le competenze. Una volta superata questa situazione, credo che tutto il sistema delle fonti in tempi di emergenza dovrà essere ripensato.
Che opinione ha delle misure adottate finora in Italia?
La situazione è indubbiamente difficile e va sottolineato che l’Italia è stata è il primo paese democratico a dover fronteggiare questa epidemia, muovendosi pertanto senza modelli da seguire. E’ apprezzabile la scelta di trasparenza nella diffusione dei dati e delle informazioni, oltre alla soluzione dell’impasse che si era venuta a creare intorno alla incapacità di funzionare del Parlamento, che è comunque sempre operativo e funzionante. Lo stesso si può dire per le giurisdizioni, che hanno adottato tutte(includo anche la Corte costituzionale, che ha introdotto innovativamente la possibilità di camere di consiglio in remoto) modalità processuali orientate alla funzionalità e alla effettività delle garanzie.
Mi pare purtroppo di dover rilevare due gravi problemi, sui quali continuare a vigilare. Da un lato, come accennavo, la grande confusione per quanto riguarda le fonti e le competenze, specie nei rapporti tra lo Stato, le regioni e anche gli enti locali, che rendono assai difficile per i cittadini orientarsi in una giungla di norme e divieti, nella quotidianità e concretezza della vita, al di là del retorico slogan “iorestoacasa”. Inoltre, è vero che non si sono raggiunti gli estremi che si rintracciano non solo in Stati autoritari, ma persino in qualche democrazia “incerta”: penso ad esempio alla Tunisia, dove è stato proclamato il coprifuocodalle 18 alle 6, come se il virus avesse un orologio! Tuttavia, diverse di queste misure, specialmente quelle adottate a livello regionale e locale, risultano irragionevoli e non proporzionate. Penso soprattutto al divieto di qualsiasi attività motoria all’aperto in vigore in diverse zone, che non è giustificato da evidenze tecnico scientifiche e pare persino lesivo del medesimo diritto alla salute che si vorrebbe proteggere.
Questa pandemia,è stato detto,è la prima dell’eradella globalizzazione. Esistono strumenti giuridici adeguati perrispondere allesfide globali alla salute?
L’epidemia, come è stato evidenziato in questi giorni in un bell’intervento di Giovanni Pitruzzella, già presidente dell’Antitrust, ci pone di fronte a una realtà che, finora, avevamo fatto in modo di non vedere: viviamo in quella che Ulrich Beck ha chiamato “la società globale del rischio”. Rischi finanziari, economici, connessi ai flussi migratori, al terrorismo globale, al riscaldamento climatico, alle epidemie. È emblematico che un piccolo evento che coinvolge pipistrelli e pangolini in una remota provincia cinese diventi la più grande catastrofe dal dopoguerra.Mentre questi fenomeni, questi fatti, accadono, il diritto stenta a dare risposte. Ancor più di quanto capita in altri campi, come la tutela dell’ambiente, l’impatto della globalizzazione sulla saluteè stato sottovalutato sul piano giuridico. Eppure gli scienziati, i virologi, adesso diventati improvvisamente delle star, dopo aver lavorato per anni nell’oscurità dei loro laboratori, lo dicono da tempo: al punto che gli studi di “Global Health” sono assai diffusi. Invece, nonostante gli sviluppi vertiginosi degli scambi di persone e cose degli ultimi trent’anni, la risposta giuridica è affidata a strumenti “vecchi”, o, se vogliamo essere più benevoli, antichi, cioè alle organizzazioni internazionali mondiali costruite nel Secondo dopoguerra, in particolare l’Organizzazione mondiale della sanità (la sua costituzione data al 22 luglio 1946), che si muovono con tutti i limiti di questo tipo di istituzioni. Ovvero i loro atti non sono vincolanti nei confronti degli Stati, si collocano generalmente in quella zona grigia che i giuristi chiamano soft law. Gli stessi limiti scontano altri, più recenti tipi di interventi, come i Sustainable Development Goals delle Nazioni Unite, obbiettivi di tipo politico da raggiungere entro il 2030(ai quali l’Università di Siena ha contribuito fin dal 2012). In particolare, l’obbiettivo 3 (Good Health and Well-Being) prevede tra i suoi targets, al 3D, quello di “Strengthen the capacity of all countries, in particular developing countries, for early warning, risk reduction and management of national and global health risks”, da valutare proprio sulla base della “International Health Regulations (IHR) capacity and health emergency preparedness”.Un bellissimo obbiettivo, ma che al momento resta soltanto un’aspirazione che si scontra contro la indisponibiltà degli Stati ad avviare una collaborazione più intensa, che porti a trasferire alcune delle loro competenze a un livello decisionale mondiale.
Insomma, benché con la globalizzazione il carattere (da sempre) “aterritoriale” dei virus siastato enfatizzato, la geografia del potere, che si basa (ancora) sui confini statali, è del tutto inadeguata a garantire il diritto alla salutedi fronte a una pandemia, se non attraverso misure emergenzialidi contenimento, che in sostanza consistono nella limitazione di altri diritti. Anche in questo campo siamo chiamati a fare un salto, cioè a spostare la scala territoriale delle risposte. E’ una prospettiva verso la quale lavorare. Al momento, colpisce il grande vuoto nel quale i vecchi Stati continuano a muoversi, restando gli unici punti di riferimento, benché limitati e quasi impotenti, di fronte al piccolissimo, agilissimo virus.
Ci sono aspetti che finora non sono stati messi sufficientemente in luce negli interventi dei giuristi in questi primi giorni e che vorrebbe sottolineare?
Sì, in effetti ci terrei a sottolineare due aspetti.
Innanzitutto, non dobbiamo dimenticare che un pilastro della democrazia è il principio di eguaglianza, intesa come eguaglianza sociale. Un eccesso di diseguaglianza mette in pericolo la coesione sociale, quella vicinanza tra le persone che è alla base della democrazia. Ebbene, una grande sfida che questa epidemia pone riguarda proprio le diseguaglianze. Che già negli ultimi decenni erano in crescita, come molti economisti non si stancano di ricordarci. Lo ha detto bene qualche giorno fa in un’intervista il professor Zagrebelsky: anche in questa epidemia, chi sta sotto piange, mentre chi sta in alto spesso ride. Mi riferisco sia alle misure,come si suol dire,“contenitive” ,che alle conseguenze economiche dell’epidemia. Pensiamo alle misure contenitive: esse si sono risolte, finora, nel privare le persone dell’accesso agli spazi pubblici, confinandole negli spazi privati. Basta avere un po' di immaginazione, o affidarci alle nostre esperienze personali: ciascuno può vedere che non è proprio la stessa cosa essere confinati in cinque, sei, sette, in un basso napoletano, senza luce, senza verde, o pontificare chiedendo a tutti di restare a casa dalle proprie comode villette, prendendo il sole in giardino. E quanto alle conseguenze economiche, c’è poco da dire. Ognuno di noi conosce persone colpite e finanche travolte, nelle loro attività e nel sostentamento, dalle misure contenitive adottate, persone i cui diritti, in questo caso le libertà economiche,sono stati compressi ben più di quelli del resto della collettività. Ci sarà molto a cui pensare, ma soprattutto molto da fare, dopo.
Infine, se posso spendere ancora una parola, ho già parlato anche troppo, vorrei concludere con un invito. A vigilare. In questi giorni si parla tanto di cittadini che, spinti dalla paura, dall’invidia, finanche dall’odio, si autonominano guardiani dei comportamenti altrui. Non è certo questa la vigilanza di cui abbiamo bisogno, anzi, in democrazia ognuno è responsabile delle sue azioni e delle loro conseguenze giuridiche. Non abbiamo certo bisogno di delatori. Il mio invitoè a quella vigilanza, parte indispensabile della cittadinanza attiva sulla quale si regge la democrazia, legata allo spirito critico, volta a tenere sempre acceso il lumicino della ragione. Come direbbe Manzoni, a far prevalere il buon senso sul senso comune.
Perché, in conclusione, in tempi di emergenza, ancor più che in tempi di normalità, lo Stato costituzionale si regge, proprio in senso letterale, cioè di continuare a esistere, senza trasformarsi in qualcos’altro, soltanto se riesce ad essere uno Stato costituzionale diffuso, ovvero se ciascuno riesce a cogliere appieno l’importanza di questo fragile meccanismo di convivenza e se ne fa custode.