Nel 75° anniversario della Costituzione italiana, un ministro della Repubblica scrive un disegno di legge che supera il confine delle legittimità costituzionale, alterando la forma di governo parlamentare e frantumando l’unità della Repubblica. È lo schema di disegno di legge Calderoli sull’autonomia differenziata delle Regioni, che, nell’art.1 dichiara invece fedeltà all’art. 116 , co.3. Cost. Una excusatio non petita alle prevedibili accuse di violazione della Costituzione.
Il nostro ragionamento parte proprio dal 116. La norma prevede che le Regioni possano contrattare con lo Stato dimensioni particolari di autonomia, ritagliando ambiti dalle materie di competenza concorrente, nonché esclusiva entro limiti tassativi. Il 116, figlio della riforma del Titolo V, aveva dato luogo per la scarsa sensibilità politica all’argomento dell’unità nazionale a dubbi di costituzionalità fin dalla sua discussione parlamentare.
Gli si contestava che consentire la cessione definitiva alle regioni di ogni materia del 117, co.2, Cost., dequotava a una questione di condominio regionale materie, insofferenti a essere parcellizzate per le esigenze specifiche di un territorio. Oggi più di ieri possiamo dire che scuola, autostrade, ferrovie e reti di comunicazione o energetiche chiamano in causa l’indivisibile interesse nazionale. Da come, quanto e cosa si insegna ai nostri ragazzi dipende l’identità culturale del Paese. Al pari, le scelte sulle modalità di produrre energia devono rimanere fuori dal perimetro di un governatore regionale, anzi il tormentato iter del price cap europeo sottolinea la necessità di una decisione corale e sovranazionale. Eppure in un contesto che tende a erodere dall’imperium nazionale valutazioni un tempo interne, questo disegno di legge guarda con nostalgia al feudalesimo medievale, rievocandolo.
Tale rischio di incostituzionalità, già presente nel riformato articolo 116, era temperabile da un’interpretazione in grado di individuare le sole materie sorrette da un effettivo interesse locale, e non collidenti con le esigenze generali. È vero che questa legge per la sua forza ordinaria avrebbe posto argini superabili, però avrebbe indicato un indirizzo di governo. Ma Calderoli non ha scelto questa via.
Il secondo vulnus di incostituzionalità del 116 era nel pericolo di frantumare l’Unità della Repubblica, ridotta a un simulacro se i diritti dei cittadini dipendono dal luogo di residenza. Il ministro Calderoli vuole dare la sensazione di cogliere questa preoccupazione e quindi condiziona la differenziazione autonomistica al disegno normativo dei livelli essenziali delle prestazioni, saggiamente riservati dal Titolo V al legislatore statale esclusivo.
Ma è solo una sensazione, perché il disegno di legge va in senso opposto. L’atto che darà sostanza ai Lep non è una legge, ma un DPCM. Questo dequotare i Lep ai DPCM non è apprezzabile. È dalla Rivoluzione Francese che i diritti si definiscono nell’Assemblea direttamente eletta dal popolo, e sono riletti per la cautela del nostro costituente dalla Corte Costituzionale. Qui invece i diritti saranno decisi nel segreto delle stanze del governo e contrattati con l’esecutivo regionale.
Questo salto dalla legge al DPCM comporta altresì uno slittamento della forma di governo, non più centrata sul Parlamento, in ragione dell’elezione popolare, ma sul premier e sul suo governo, che in una confusione di atti, cabine di regia, conferenze e commissari ad acta, spogliano gli eletti dal popolo di compiti incedibili.
Il passaggio è delicato perché con l’intenzione di attuare l’art. 116 si aggira il 94 Cost., il premier godrebbe di fatto di un’investitura popolare che gli darebbe il potere di scartare il Parlamento e agire in solitudine, rimanendo i suoi atti intoccabili anche dalla Corte costituzionale.
Questa surrettizia modifica della Costituzione, non avvenuta tramite il 138, l’unica via lecita, ma con una mera legge ordinaria, irriconducibile alla maggioranza degli elettori per le storture del maggioritario, non si giustificherebbe in nome dell’efficienza.Infatti i futuri staterelli semi-indipendenti si contenderebbero l’egemonia a colpi di nuovi apparati pubblici.
Infine, la garanzia dei Lep è la promessa di un Arlecchino che sa di mentire: non un euro è previsto per finanziare il minimo sindacale dei diritti. Così si compromette la funzione garantistica dei Lep, incapaci a ridurre i divari territoriali mancando la sabbia per riempire le voragini.
Auguriamoci che il Parlamento, già mortificato in rappresentatività per il taglio subito, difenda l’unità della Repubblica e l’uguaglianza dei suoi cittadini, opponendosi con forza alla nuova legge Calderoli, meritevole dello stesso appellativo che il ministro diede a quella elettorale.
Giovanna De Minico (Professore di Diritto Costituzionale Università Federico II Napoli)