Matteo Piantedosi è il quarto prefetto chiamato a ricoprire la carica di ministro dell’Interno. Prima di lui è stato il turno di Luciana Lamorgese (governi Conte II e Draghi), Annamaria Cancellieri (governo Monti), Giovanni Rinaldo Coronas (governo Dini). Nessun caso nella prima fase della storia repubblicana (1948-1993); tutti e quattro nella seconda (1994-oggi).
Si tratta di un fenomeno che merita di essere approfondito, perché sintomo – l’ennesimo – dell’allontanamento dai principi del costituzionalismo. Cosa sia il costituzionalismo va forse ricordato: non, semplicemente, la scienza che studia la costituzione (quale essa sia), ma il filone della filosofia politica che riflette sui pericoli derivanti dall’acquisizione del monopolio della violenza legittima in capo agli Stati contemporanei e individua in un certo tipo di costituzione lo strumento più idoneo a contenerli.
A tal fine, due sono gli strumenti indispensabili.
La separazione del potere, in base alla quale sono stabilite regole costituzionali di competenza e di procedura che vincolano i titolari del potere rispetto al chi lo esercita e al come lo fa. E la limitazione del potere, in base alla quale sono stabilite, sotto forma di diritti, regole costituzionali di merito che vincolano i titolari del potere rispetto al cosa devono, possono e non devono fare.
Il secondo profilo è senz’altro quello oggi più misconosciuto. «Abbiamo vinto le elezioni, lasciateci lavorare e tra cinque anni ci giudicherete»: è il refrain che sempre ricorre in bocca ai “vincitori” delle elezioni (da ultimo, nella versione Piantedosi: «Questo governo ha ottenuto un forte mandato elettorale dai cittadini su temi precisi. So cosa devo fare»). Una visione banalizzante le dinamiche politico-costituzionali, a partire dalla pretesa che le elezioni servano a sancire vincitori e vinti, mentre, in realtà, valgono a misurare il consenso di cui le varie opzioni politiche godono presso l’elettorato.
Ma, soprattutto, una visione radicalmente avulsa dal costituzionalismo: che entra in gioco proprio nel momento in cui una parte politica (per di più, minoritaria) assume le leve del potere, per impedire che possa abusarne. Chiarissimo, in tal senso, l’art. 1, co. 2, della Costituzione: «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme [separazione del potere] e nei limiti [limitazione del potere] della Costituzione».
Ciò significa che i diritti esercitano, per loro stessa natura, una funzione antimaggioritaria e antigovernativa. Servono, prima di tutto, a proteggere le minoranze, e più in generale i governati, contro il pericolo che i governanti abusino del potere di cui sono titolari. Abusi che possono essere commissivi (chiudere i porti, nonostante sia previsto il dovere di soccorrere i naufraghi) o omissivi (non curare i malati, nonostante sia previsto il diritto alla salute) e il cui nucleo primigenio, sin dalla Magna Carta del 1215, è la necessità di proteggere i cittadini dagli eccessi della forza fisica a cui, in ultima istanza, lo Stato può fare ricorso (per esempio, per imporre l’esecuzione di una pena o per sciogliere una manifestazione violenta).
Primo destinatario polemico dei diritti è, dunque, il governo (non a caso, la Costituzione prevede che qualsiasi limitazione dei diritti costituzionali debba avvenire nei casi e nei modi previsti dalla legge approvata dal parlamento e sulla base di un provvedimento motivato adottato dalla magistratura: sancendo così un quadro in cui il governo agisce come mero esecutore); e, all’interno del governo, destinatarie principali ne sono le forze dell’ordine, titolari del più potente potere dello Stato: quello – appunto – di fare ricorso alla forza fisica.
Ecco perché stride con il costituzionalismo porre un funzionario di polizia, qual è essenzialmente un prefetto, a capo del ministero dell’Interno: perché le forze dell’ordine vanno esse stesse protette dalla sempre sottesa tentazione di agire a fini liberticidi (dal G8 di Genova al caso Cucchi i precedenti, purtroppo, non mancano) e un membro della pubblica sicurezza è, al di là delle sue stesse intenzioni, la figura funzionalmente meno indicata a farlo.
C’è dunque da stupirsi che, nell’ambito di un esecutivo law and order, la prima mossa del nuovo ministro dell’Interno sia stata minare la più politica delle libertà liberali, quella di riunione? E che, a goffa giustificazione del passo falso compiuto, abbia avanzato l’incredibile pretesa di essere lui stesso il solo autentico interprete della reale portata della norma («trovo offensivo attribuirci la volontà di intervenire in altri contesti in cui si esercitano diritti costituzionalmente garantiti a cui la norma chiaramente non fa alcun riferimento»)?