C’è un vizio ricorrente nei nostri governi: presentarsi come un “governo costituente”. Lo fece Renzi, tentando una riforma costituzionale infelice che il voto popolare ha sepolto, ma lo aveva già fatto Letta. Anche il governo Conte II, pur con toni più misurati e sobrii, ha indicato le riforme costituzionali come una tappa obbligata del proprio percorso.
Nel discorso con cui ha chiesto e ottenuto la fiducia, Conte dice infatti che “il progetto politico di questo governo segna l’inizio di una nuova, risolutiva stagione riformatrice”. D’accordo quando dice che “è nostra volontà inserire in calendario il disegno di legge che promuove la riduzione del numero dei parlamentari”: scelta giusta, visto che questa riforma ha già compiuto i tre quarti del proprio iter parlamentare. Giusta è anche l’idea, che non tocca la Costituzione, di modificare la legge elettorale con legge ordinaria (forse solo un sistema proporzionale “puro” darebbe speranza di far rinascere una qualche sinistra degna di questo nome). Ma che cosa vuol dire Conte quando soggiunge che “è nostro obiettivo procedere a una riforma dei requisiti di elettorato attivo e passivo, nonché avviare una revisione costituzionale per assicurare maggiore equilibrio al sistema e far riavvicinare i cittadini alle istituzioni”? Che cosa intende quando dice che “nel quadro delle riforme costituzionali è intenzione del governo portare a termine il processo che conduca a un’autonomia differenziata giusta e cooperativa, che salvaguardi il principio di coesione e la tutela dell’unità giuridica ed economica”? E quale riforma ha in mente quando parla di “definire i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, e anche i fabbisogni standard, perché bisogna dare attuazione completa al 5° comma dell’art 119 della Costituzione”? Su quest’ultimo punto intende agire mediante legge ordinaria o intervenendo sulla Costituzione?
C’è poi una domanda ancor più pressante: le riforme costituzionali prospettate dal governo vanno intese come interventi “chirurgici”, da discutersi uno per uno, o si intende, ripercorrendo la strada di Renzi, arrestare il percorso dell’unica riforma costituzionale già avviata a soluzione (la riduzione del numero dei parlamentari) per immetterla all’interno di un vasto ddl costituzionale con svariate riforme? Si è parlato di un “accordo segreto” M5S-Pd per una “piccola rivoluzione della Costituzione in cinque punti” (Repubblica), che sono in realtà sei, questi :
1. taglio del numero dei parlamentari (già in itinere);
2. “sfiducia costruttiva” (ogni mozione di sfiducia dovrebbe indicare una maggioranza alternativa);
3. modifica del corpo elettorale che elegge il Capo dello Stato (riducendo il numero dei delegati regionali);
4. partecipazione dei presidenti di Regione alle sedute del Senato quando si discutano leggi di loro interesse;
5. parificazione di elettorato attivo e passivo per Camera e Senato (18 anni per votare, 25 anni per essere eletti);
6. fiducia al governo in seduta congiunta Camera-Senato onde evitare risultati difformi;
Senza discutere queste idee, in parte diverse da quel che Conte ha menzionato nel suo discorso, non si possono tacere tre ragioni di preoccupazione. La prima si può formulare con le parole di Piero Calamandrei, secondo cui, “quando il Parlamento discuterà pubblicamente la Costituzione, i banchi del governo dovranno essere vuoti; estraneo del pari deve rimanere il governo alla formulazione del progetto, se si vuole che questo scaturisca interamente dalla libera determinazione dell’assemblea sovrana”. L’idea di un “governo costituente” è l’opposto dell’indirizzo etico-politico raccomandato da Calamandrei (e richiamato da Zagrebelsky nella campagna per il No al referendum sulla riforma Renzi), anzi somiglia piuttosto a un’incauta dichiarazione dell’allora presidente del Consiglio Monti in un’intervista allo Spiegel del 5 agosto 2012, secondo cui “i governi devono educare i loro Parlamenti”.
Seconda preoccupazione: se le varie ipotesi di riforma costituzionale (quelle elencate più altre che fatalmente emergeranno) dovessero essere messe tutte insieme, componendo un ampio disegno, si verrebbe a ricadere nella stessa “sgrammaticatura istituzionale” dei due ultimi tentativi di riforma (Berlusconi e Renzi), entrambi bocciati dal voto popolare. Gravissimo sarebbe l’errore di comporre in un’unica riforma materie disparate, senza lasciare all’elettore che sia d’accordo con una sola di quelle proposte la possibilità di esprimere separati pareri su separate materie. Su ciascun punto andrebbe avviata, su iniziativa del Parlamento e non del governo, una distinta procedura di ddl costituzionale, cominciando dalla riduzione del numero dei parlamentari, mentre altre possibili riforme costituzionali andrebbero semmai proposte e discusse (ed eventualmente sottoposte a referendum) una per una, separatamente.
Non sto affatto dicendo che non si può cambiare la Costituzione. Anzi: la Costituzione si può, e qualche volta si deve, modificare in nome della Costituzione, e l’art. 138 dice espressamente come fare, con una procedura volutamente lenta e complessa, deliberata dalla Costituente per mettere la Carta al riparo dai colpi di maggioranza. Ma la retorica delle riforme e della loro urgenza è tanta e tale, che sin dal governo Letta si tentò di scassinare la procedura dell’art. 138 con improprie scorciatoie. Non meno sorprendente è che, anziché proporre modifiche puntuali a singoli articoli o segmenti della Costituzione, come è sempre avvenuto fino alle proposte Berlusconi e Renzi, si sia inteso allora stravolgerla cambiando, né più e né meno, “la forma di Stato e la forma di governo”. Quelli non furono passeggeri errori di grammatica o di galateo istituzionale: fu una svolta epocale che gettò pesanti ombre sul nostro futuro. Mi auguro che il governo Conte non voglia avviarsi sulla stessa strada che altri hanno sperimentato con loro danno. E con danno del Paese.
La terza preoccupazione può apparire più sottile ma è invece la più forte. Questo insistere sull’impellente necessità di cambiare la Costituzione non è solo un neutro rituale retorico. Al contrario, ha un effetto di lungo periodo, assai rischioso: radica l’impressione che la Costituzione sia talmente invecchiata che è comunque necessario ringiovanirla con radicali “riforme“, poco importa da chi scritte. Diffondere tale sfiducia nella Costituzione è contrario alla vita della democrazia nel nostro Paese. Allontana la consapevolezza che la Costituzione così come è rappresenta il manifesto dei nostri diritti (spesso calpestati o ignorati). Coltiva l’illusione che una Costituzione in qualsiasi modo diversa sarebbe ipso facto migliore. Non è detto che un tal progetto riesca: come si è visto con il referendum sulla riforma Renzi, un tentativo di riformare la Costituzione può non solo fallire alla prova del voto, ma anche innescare nuovi meccanismi di consapevolezza. Ma assai meglio sarebbe che il Conte 2 non imboccasse la strada, fallimentare, di una vasta riforma della Costituzione. Se così non fosse, dovremmo prepararci a innescare un adeguato fuoco di sbarramento.