Abbiamo bisogno dell’Europa, e dell’euro, perché siamo un paese indebitato, il cui debito ha continuato a crescere dopo il 2008 – quasi di 20 punti nonostante le politiche di rigore - e rappresenta lo strumento fondamentale per il mantenimento in vita di molte voci della spesa corrente. In estrema sintesi, a differenza di altri paesi, abbiamo bisogno del debito per pagare servizi e pensioni. Non è davvero immaginabile, peraltro, che una simile montagna di debito, oltre il 132% del Pil, possa essere ridotta sensibilmente in tempi brevi a meno di non introdurre pesantissimi aumenti del carico fiscale, già molto consistente, o forsennate e impraticabili privatizzazioni.
Peraltro, cartolarizzare gli immobili pubblici per metterli in vendita è un’operazione già tentata in passato con pessimi risultati che hanno aumentato il debito invece di ridurlo. Fino ad oggi l’Europa ci ha aiutato in tre modi a finanziare questo nostro indispensabile debito:
1) Grazie alla forza dell’euro, i tassi di interesse sono scesi dal 13-14% di media annua negli anni Novanta a livelli negativi; anche oggi, nonostante le turbolenze, come del resto nel 2011, i titoli decennali italiani pagano meno del 3%. In questo senso, sta compiendosi una “ristrutturazione” positiva del debito, con titoli nuovi emessi a tassi molto più bassi dei titoli in scadenza.
2) Grazie all’Europa e all’euro è stato possibile il quantitative easing, la liquidità facile, che ha permesso il collocamento del debito italiano senza scosse anche nei momenti peggiori; d’altra parte sarebbe davvero folle pensare di collocare tutto il debito solo tra compratori italiani, vista l’attuale distribuzione del debito stesso, che è nelle mani delle famiglie italiane per meno del 5%, e data la già altissima quota di debito detenuta dalle banche italiane.
3) L’Europa ha sempre consentito all’Italia margini di flessibilità sui vincoli di Maastricht e sul fiscal compact tali, di fatto, da non applicarli: le clausole di salvaguardia dell’Iva, solo per citare un esempio, non sono mai scattate per effetto della flessibilità concessa dall’Europa e non certo per le coperture trovate dai governi italiani.
Ma abbiamo bisogno dell’Europa, oltre che per il debito, anche per il nostro sistema bancario, almeno per due ragioni:
1) Grazie all’azione della Bce le banche si sono approvvigionate a tassi negativi e hanno rifinanziato il proprio corposo debito senza necessità di andare sul ben più costoso mercato finanziario dove avrebbero dovuto collocare le loro obbligazioni.
2) Sono state sottoposte ad una vigilanza che le ha “costrette” a rivedere le proprie sofferenze, evitando così che saltassero; in questo senso la vigilanza europea pare assai più incisiva di quella esercitata dalla Banca d’Italia. E’ evidente che senza l’appartenenza all’area euro, il credito bancario italiano si sarebbe interrotto, o avrebbe avuto enormi difficoltà, con conseguenze devastanti sull’intero sistema produttivo e sulle sorti dei risparmiatori.
Alla luce di ciò, uscire dall’euro sarebbe una follia, ancora una volta, per una serie di ragioni.
1) La lira è stata una moneta storicamente debolissima e i cambi artificiali hanno prodotto disastri, basti pensare agli effetti di Quota Novanta, voluta da Mussolini per ragioni politiche, o alle vicende valutarie degli anni Settanta
2) Il debito italiano è denominato in euro e una conversione sarebbe gravosissima perché andrebbe pagata in una moneta più forte della rinata lira.
3) La svalutazione e l’inflazione, conseguenti all’uscita dall’euro, sarebbero durissime.
4) Non ha alcun senso, in tale ottica, rivendicare una sovranità monetaria nazionale per stampare carta moneta comprando debito nazionale, come accadeva prima del 1981, perché dopo la liberalizzazione dei flussi di capitale, avvenuta a metà anni Ottanta, i tassi di interesse da pagare per finanziare il debito sarebbero altissimi e la quantità di carta moneta da stampare per comprare il debito sarebbe colossale, in pratica diverrebbe carta straccia.
5) Se l’euro fosse stato una moneta troppo forte rispetto all’economia italiana, non si sarebbero verificati i dati record sul versante delle esportazioni che rappresentano il punto di forza del nostro paese.
Per essere più incisiva a quest’Europa servono però almeno tre condizioni;
1) Che non venga più messo in discussione l’euro, ma, anzi, proprio sulla forza dell’euro, si avvii la revisione dei parametri di Maastricht pensati quando l’Europa era un focolaio di inflazione. Oggi l’Europa ha una moneta rifugio ed è terra di deflazione. In tale ottica, serve un accordo tra i vari Stati membri per riformare i trattati nella parte che fissa al 3% il rapporto da non superare tra deficit e Pil, portandolo al 5% per i paesi che hanno un avanzo primario e che non aumentano la spesa per interessi sul debito. Sarebbe possibile così liberare risorse pubbliche per investimenti, indispensabili per la ripresa economica. E’ chiaro che un allentamento delle maglie del rapporto deficit-Pil può avvenire, senza scossoni sui mercati finanziari, solo se condiviso a livello europeo e non tramite sforamenti unilaterali. In questo senso occorrerebbe anche modificare la natura della Bce, consentendole di fare il prestatore di ultima istanza.
2) Che si completi l’unione fiscale e bancaria, con regole comuni che impediscano dannose azioni di dumping finanziario e con una disciplina omogenea dei crediti deteriorati. Occorre rimuovere, al contempo, l’inutile direttiva comunitaria che ha introdotto il cosiddetto “bail in”, il coinvolgimento di azionisti, obbligazionisti e correntisti delle banche fino a 100 mila euro in caso di fallimento bancario. Tale norma, di fatto mai applicata, nasce da un’idea molto rigida di libera concorrenza e del conseguente divieto di aiuti di Stato per cui non è possibile procedere a salvataggi bancari a carico dei contribuenti se non dopo aver chiamato al sacrificio i tre gruppi sopra ricordati. Proprio questa rigidità ha spaventato molto i risparmiatori e li ha resi restii ad ogni forma di investimento finanziario, utile alla ripresa del sistema produttivo, a cui serve liquidità. Inoltre, la sola minaccia del bail in ha generato forti perdite per molti istituti di credito italiani, costretti a pesanti ricapitalizzazioni. Al di là degli aspetti tecnici ed economici, la prospettiva che l’Europa sia “nemica” dei risparmiatori costituisce un argomento fortissimo per gli euroscettici.
3) Appaiono sempre più necessari un salario minimo garantito che valga per tutta l’Unione Europea e un fondo comune europeo contro la disoccupazione; si tratterebbe di due misure in grado di ridurre i rischi sociali nei momenti di crisi più acuta delle varie economie nazionali che, se finanziate in maniera continuativa, eviterebbero il ricorso a più costosi provvedimenti presi in emergenza. Soprattutto rappresenterebbero un cardine a cui legare una solida nozione di cittadinanza europea che consentirebbe di allontanare ogni euroscetticismo, in particolare se la copertura del salario minimo e del fondo provenisse dall’emissione di titoli di debito europeo, efficaci sui mercati e simboli di un impegno realmente condiviso. Sulla solidarietà si costruisce infatti l’appartenenza comune.
Sul piano politico e culturale, abbiamo bisogno di un’Europa migliore e non certo di un’Europa delle piccole patrie che coltivano i caratteri di un nuovo sovranismo, profondamente conflittuale perché costruito sulla celebrazione dell’onnipotenza dei singoli popoli. Proprio l’appello costante allo “spirito del popolo” è infatti il dato fondante del nuovo sovranismo che individua nell’elezione diretta, popolare appunto, l’unica fonte di legittimazione di qualsiasi potere. In tale prospettiva perde di significato ogni ipotesi di ingegneria istituzionale e di organizzazione costituzionale, tanto care invece ai sostenitori dello Stato-nazione.
Il popolo è un’entità organica, che si esprime prima di tutto sulla rete dei social e non vuole filtri di rappresentanza per le proprie passioni, le proprie rabbie e le proprie ambizioni; la mediazione istituzionale, la rappresentanza dotata di autonomia rispetto al “popolo degli elettori” costituiscono strumenti di prevaricazione artificiale delle élites nei confronti della sovranità popolare. Per i sovranisti sono da bandire la divisione dei poteri che preveda “corpi” non eletti e la dimensione parlamentare, intesa come sede di discussione e di approfondimento dei temi politici ed economici, le cui soluzioni non possono distaccarsi dalle formule sloganistiche lanciate nelle perenni campagne elettorali.
Per i sovranisti, non serve la rappresentanza, ma la rappresentazione, la perfetta aderenza del leader politico alle istanze popolari che ne definiscono persino l’immagine: il leader sovranista deve essere a immagine e somiglianza dello spirito del popolo, senza altre superfetazioni e sovrastrutture. Nel linguaggio sovranista un posto centrale è occupato anche dalla tradizione, dal ritorno ad un passato “felice” in cui il sentimento religioso popolare, assai più della Chiesa come istituzione e quindi come élite, trova ampio spazio.
Lo spirito popolare che si esprime attraverso il voto e attraverso la celebrazione della tradizione consacra i propri leader, che non sono guide, ma fedeli e pedissequi interpreti di una “religione” della maggioranza, ben poco disponibile verso le minoranze “infedeli”, che non si riconoscono nei principi di quella religione. In questo senso non può esistere un’Europa dei sovranismi perché la celebrazione del primato assoluto dei vari popoli “sovrani” non consente alcuno spazio alla visione di un futuro comune.
Alessandro Volpi, università di Pisa