Oggi il mondo sta combattendo una pandemia; prima o poi la questione sanitaria verrà risolta, ma le conseguenze economiche saranno devastanti, forse peggiori di quelle del crollo del 1929, se non si attua un piano di ripresa globale e uno shock redistributivo a livello mondiale. Ma un piano del genere non può in alcun modo essere finanziato da un ulteriore indebitamento, che colpirebbe ancora di più la popolazione.
Dovrebbe invece essere finanziato disponendo di capitali concentrati e mettendoli al servizio dell’umanità (e non contro di essa com’è successo finora). È giunto il momento di porre un limite alla sacralizzazione ad infinitum della proprietà privata, costringendo la ricchezza più concentrata a canalizzarsi verso lo sviluppo equo e sostenibile.
Qualsiasi fondamento ideologico su una possibile correlazione tra proprietà privata, merito individuale e stabilità sociale può essere ragionevole entro certi limiti. Ma quando poche persone nel mondo accumulano più ricchezze della metà dell’umanità (e la tendenza indica un’accelerazione del fenomeno), quelle fondamenta crollano, perché non c’è alcun merito personale che giustifichi tali differenze, perché nessun diritto acquisito da pochi può legittimare l’emarginazione di milioni di persone e perché non ci sarà stabilità sociale con tali disuguaglianze.
Da tempo il mondo si interroga sul mostruoso livello di disuguaglianza, ma di fronte all’attuale pandemia e alle sue conseguenze economiche è urgente attuare politiche drastiche in tal senso. In altri momenti storici, l’irrazionalità delle conflagrazioni mondiali ha costretto i governi a realizzare economie di guerra e dopoguerra, adattando le strutture produttive per metterle al servizio delle emergenze. Ora è giunto il momento di una grande convergenza mondiale per apoggiare misure economiche radicali, indispensabili in questa emergenza di lotta alle disuguaglianze, all’emarginazione, alla disumanizzazione e al disastro ambientale.
Oggi i sistemi finanziari e produttivi dovrebbero essere orientati verso una riconversione del sistema economico globale, che abbia l’obiettivo di far uscire le persone dalla povertà, di garantire i diritti umani fondamentali e modificare la matrice produttiva in termini di consumo equo e sostenibile dal punto di vista ambientale.
Non sarà sufficiente imporre tasse più elevate a chi concentra la ricchezza, perché anche se questa misura finanzierà i programmi di emergenza, non cambierà strutturalmente la matrice distributiva e produttiva. Sarà necessario costringere le fabbriche di armi a riconvertirsi in fabbriche di veicoli, macchinari e mezzi di produzione. Bisognerà costringere le banche e i fondi d’investimento a smettere di speculare, per dedicarsi al finanziamento della produzione e a sostenere il consumo dei beni e servizi necessari, nel quadro delle politiche di tutela ambientale. Dovremo forzare il reinvestimento produttivo degli utili delle grandi imprese, mettendo fine alla fuga di capitali verso i paradisi fiscali e la speculazione.
Un criterio per porre dei limiti alla proprietà privata dovrebbe essere che il grado di libertà di disporre del capitale e del suo reddito sia inversamente proporzionale alle sue dimensioni. Più capitale c’è, maggiore è la responsabilità sociale di destinarlo al progresso della società nel suo complesso e non solo alla redditività di pochi. Se qualcuno ha una piccola o media impresa, vedrà il modo migliore per investire i suoi profitti, all’interno di certi quadri legali, fiscali e ambientali. Ma se qualcuno possiede grandi aziende o banche, la sua influenza sull’economia è maggiore, quindi le sue decisioni dovrebbero essere limitate a un quadro più ristretto in cui il bene comune è la priorità. E naturalmente non stiamo parlando di donazioni simboliche per proteggere l’immagine aziendale, né di raccomandazioni o suggerimenti da parte del pubblico al settore privato. Stiamo parlando del fatto che gli Stati con una vera e propria Sensibilità Umanista, emergenti da un nuovo Contratto Sociale, dovrebbero intervenire attivamente per indirizzare gli investimenti dei grandi capitali verso aree di interesse generale, attraverso politiche fiscali che rendano proibitivi altri investimenti di fondi che non coincidono con l’interesse della maggioranza.
Alcuni diranno che tale intervento pubblico nella sfera privata è una violazione dei diritti di proprietà. Bisognerà rispondergli che i diritti umani della maggioranza hanno la priorità sui diritti di proprietà del capitale concentrato. Altri, al contrario, potrebbero sostenere che, invece di riorientare gli investimenti, sarebbe “più rivoluzionario” espropriare tutto e distribuirlo in una sola volta. A loro bisognerà spiegare che, se si abbatte un melo per distribuire le mele, presto non ci saranno più frutti. In ogni caso, è bene ricordare questa parte del Documento Umanista: “Il profitto non destinato ad essere reinvestito nell’azienda, non diretto alla sua espansione o diversificazione, prende la via della speculazione finanziaria. E la stessa via della speculazione finanziaria la prende il profitto che non crea nuovi posti di lavoro. Di conseguenza, la lotta dei lavoratori deve obbligare il capitale a raggiungere la sua massima resa produttiva. Ma questo non potrà diventare realtà senza una compartecipazione nella gestione e nella direzione dell’azienda. Altrimenti, come si potranno evitare i licenziamenti in massa, la chiusura e lo svuotamento delle aziende? Il vero problema sta infatti nell’insufficienza degli investimenti, nel fallimento fraudolento delle aziende, nella catena dell’indebitamento, nella fuga dei capitali, e non nei profitti che potrebbero derivare dall’aumento della produttività. Se poi qualcuno insistesse ancora, sulla base di insegnamenti ottocenteschi, sull’idea della confisca dei mezzi di produzione da parte dei lavoratori, quel qualcuno dovrebbe tenere presente il recente fallimento del Socialismo reale.” [1]
Naturalmente, di fronte all’attuale emergenza sanitaria ed economica si dovrebbe garantire fin d’ora l’aumento dei fondi destinati alla sanità e un reddito di base per ogni essere umano, in modo che nessuno cada nella povertà. Ciò richiederà pesanti tasse sulle grandi fortune a livello nazionale; ma poiché vi è una grande disuguaglianza di risorse tra i vari paesi, l’ONU e le agenzie di credito internazionali dovrebbero occuparsi di creare un fondo internazionale per soddisfare queste esigenze nei paesi più svantaggiati.
Basterà che nell’ambito dell’ONU venga concordata una drastica e simultanea riduzione delle spese militari delle potenze, in modo da liberare risorse sufficienti e sarà sufficiente che le agenzie di credito internazionali, invece di curare gli interessi dei finanziatori, sostengano i paesi indebitati nel superamento della crisi.
Ma nell’emergenza immediata, l’immagine di un nuovo mondo deve essere plasmata attraverso cambiamenti strutturali profondi, perché non c’è più tempo per ulteriori rinvii e in campo economico questo implica sicuramente porre dei limiti alla proprietà privata e alla dittatura dei mercati che ci hanno portato a depredare gli esseri umani e il loro habitat.
Come abbiamo sempre detto, tutte queste decisioni sono lontane dalla volontà della maggior parte dei governanti, pertanto sarà necessario che i popoli spingano nella giusta direzione. E forse oggi più che mai, c’è un’opportunità per i vari popoli del mondo di sintonizzarsi e convergere nella costruzione di un futuro comune.
Traduzione dallo spagnolo di Thomas Schmid