Piena legittimità dei derivati anche puramente speculativi, ossia conclusi con finalità diverse da quelle di copertura. Nessuna disposizione della normativa di riferimento in materia finanziaria prevede l'obbligo di indicare nei contratti il mark to market o gli scenari probabilistici dei derivati. Così si è espressa la Corte di appello di Milano, con la sentenza dell'11 giugno 2018, n. 2859.
La sentenza, ottenuta dall'avvocato Benedetta Musco Carbonaro dello Studio legale Zitiello Associati, ha di fatto ribaltato il precedente orientamento della stessa Corte d'appello di Milano, che nel 2013 (sentenza n. 3459 del 18 settembre 2013) aveva dichiarato la nullità dei contratti derivati per mancata informazione circa il mark to market (ossia il controvalore dello strumento derivato al momento della conclusione del contratto) e gli scenari probabilistici, intesi come andamento prospettico dello strumento alla luce del possibile trend futuro del mercato di riferimento.
Nel 2013 la Corte aveva ricostruito i derivati in termini di scommessa legalmente autorizzata, che può essere considerata meritevole di tutela solo in presenza di un'alea espressamente definita come «razionale» per entrambi gli scommettitori. In buona sostanza, proprio perché si tratterebbe di una scommessa secondo la Corte era necessario che il contraente debole, ossia il cliente, fosse posto nella condizione di conoscere tutti gli elementi considerati necessari per assumersi consapevolmente il rischio derivante dalla sottoscrizione del derivato. Tali elementi erano stati individuati negli scenari probabilistici del derivato stesso, nel valore iniziale del derivato (ossia appunto il cosiddetto mark to market), negli eventuali costi impliciti e nei criteri con cui determinare le penalità a carico del cliente in caso di estinzione anticipata, ossia tutti dati relativi tipicamente a profili di natura informativa, che tuttavia la Corte aveva «elevato» al rango di causa del contratto. Pertanto, in caso di mancata indicazione, il contratto doveva essere dichiarato nullo, con tutti i conseguenti obblighi restitutori.
La pronuncia del 2013 aveva destato particolare clamore e non poche preoccupazioni sul mercato, dal momento che i principi affermati dalla Corte potevano in astratto essere applicabili alla quasi totalità dei derivati conclusi dalla clientela degli intermediari.
Rivedendo il proprio convincimento la stessa Corte ha ora ritenuto che la causa, essendo un elemento essenziale del contratto, costituisce un elemento oggettivo che nulla ha a che vedere con le informazioni rese all'investitore. Tutti gli elementi rilevanti ai fini della misurazione del rischio, ossia come detto il valore iniziale del derivato, gli scenari probabilistici e gli eventuali costi impliciti, sono stati pertanto ricondotti nell'alveo degli obblighi di informazione: quindi la banca è tenuta a comunicarli ma, laddove non lo facesse, la conseguenza non sarà la nullità del derivato, perché al limite si potrà discutere solo di risarcimento del danno conseguente ad inadempimento. Risarcimento che, peraltro, non necessariamente è pari di per sé alle perdite totali lamentate dal cliente.
Ulteriore profilo significativo riguarda il tema dei costi impliciti dei derivati, riguardo ai quali la Corte ha ritenuto che essi non hanno niente a che vedere con l'esito finale delle operazioni. Il che significa che, anche laddove sia configurabile la violazione dell'obbligo di disclosure al cliente dei costi impliciti, l'eventuale risarcimento può essere riconosciuto solo in misura pari all'ammontare degli stessi, ossia in buona sostanza limitatamente a quanto il cliente ha pagato in più per la singola operazione, ma non certo in misura pari all'eventuale perdita poi prodotta dal derivato.