L’accumulazione di ricchezza in poche mani non produce solo una profonda e drammatica diseguaglianza sociale, dividendo il mondo fra vite degne e vite da scarto. I ricchi fanno anche male al pianeta e sono i principali responsabili della crisi climatica.
Lo studio “Climate change & the global inequality of carbon emissions, 1990-2020”, realizzato dal ’Laboratoire sur les Inégalités Mondiales dell’École d’économie de Paris’, dimostra oltre ogni evidenza la disuguaglianza globale delle emissioni di gas serra tra il 1990 e il 2019.
A livello globale, il 10% più ricco della popolazione mondiale (771 milioni di individui) emette in media 31 tonnellate di CO2 per persona all’anno ed è responsabile di circa il 48% delle emissioni globali.
Dentro questa fascia, l’1% dei ricchissimi emette in media 110 tonnellate ed è responsabile del 17% delle emissioni. Per contro, il 50% più povero (3,8 miliardi di individui) emette 1,6 tonnellate per persona all’anno, raggiungendo solo il 12% delle emissioni globali.
È una polarizzazione dovuta a diseguaglianze geopolitiche e storiche, basti pensare al fatto che il Nord America e l’Europa sono responsabili di quasi la metà di tutte le emissioni di CO2 dalla rivoluzione industriale ad oggi, la Cina raggiunge l’11%, mentre arriva solo al 4% l’Africa subsahariana. Peraltro, lo studio sopra nominato integra questo dato, aggiungendovi le emissioni di carbonio prodotte in alcuni Paesi per soddisfare, attraverso l’importazione di beni e servizi, gli standard di vita di altri Paesi.
Tenendo conto delle emissioni relative alle esportazioni ed importazioni, i livelli di emissioni europee salirebbero di circa il 25%, mentre si ridurrebbero del 10% quelle della Cina e del 20% quelle dell’Africa subsahariana. Ma lo studio dimostra che la polarizzazione è ancor più marcata se si guarda alle condizioni sociali interne a ciascun Paese.
Nelle nazioni più ricche, le emissioni pro capite della metà più povera della popolazione sono addirittura diminuite dal 1990 ad oggi, mentre si sono moltiplicate esponenzialmente quelle della popolazione abbiente e soprattutto quelle dei super-ricchi.
La ricchezza inquina, dunque. E lo fa inevitabilmente, perché, come dimostra una ricerca del 2019 prodotta dalla University of South Florida, quando una persona ha molti più soldi di quelli che gli servono per vivere “acquistare proprietà e consumare in modo eccessivo diventano segnali distintivi, e per lanciare questi segnali distintivi la classe dei ricchi deve consumare”.
Questo spinge i ricchi a comprare, costruire, e gestire cose come super-yacht, super-ville, macchine di lusso e jet privati, con un impatto ambientale devastante. Per fare un solo esempio, l’intera flotta di 15.000 jet privati degli Stati Uniti produce 56 tonnellate di emissioni di carbonio l’anno, corrispondenti a più del doppio di quanto emesso nello stesso arco di tempo da un’intera nazione come il Burundi.
Come si vede, siamo ben lungi dall’essere tutti “sulla stessa barca”, come la narrazione dominante vorrebbe farci credere. Siamo dentro un modello nel quale la ricchezza di pochi è direttamente responsabile dell’ingiustizia sociale e della crisi climatica in cui siamo drammaticamente immersi.
“La transizione ecologica sarà un bagno di sangue” ha detto tempo fa il ministro Cingolani. Potremmo semplicemente rispondergli che è l’attuale realtà ad essere un bagno di sangue quotidiano, e che la trasformazione ecologica della società può attuarsi solo attraverso una radicale inversione di rotta: socializzare la ricchezza, riappropriarsi dei beni comuni, produrre per la cura e non per i profitti.