Il tradizionale appuntamento d’inizio settembre a Cernobbio – siamo alla 45esima edizione – del Forum Ambrosetti, che mette a confronto imprenditori, economisti, politici, donne ed uomini di stato, non sembra deludere le attese. Diversi sono gli elementi di interesse. Fra cui le linee delle nuove leadership europee dopo le elezioni di fine maggio; le altalenanti vicende della Brexit, in particolare dopo la perdita della maggioranza alla Camera dei Comuni di Boris Johnson; e naturalmente l’accoglienza riservata al nuovo governo italiano, chiamato tra pochissimo a elaborare una non facile legge di bilancio. Sullo sfondo le nubi minacciose che si addensano nuovamente sull’economia mondiale.
Forse per tutte queste ragioni Sergio Mattarella ha inviato al meeting un messaggio di saluto tutt’altro che convenzionale. È necessario un riesame del patto di stabilità – ha scritto Mattarella – per rilanciare gli investimenti in infrastrutture, reti, innovazione, educazione e ricerca. E soprattutto «vanno fatti passi in avanti per una fiscalità europea che elimini forme di distorsione concorrenziale e affronti invece il tema della tassazione delle grandi imprese multinazionali».
Tali parole non potevano passare in cavalleria. E infatti se ne è sentito l’effetto nei vari dibattiti fin qui succedutisi. In quello che vedeva schierati Romano Prodi, Mario Monti, il populista di destra olandese Geert Wilders, il ministro dell’economia francese Bruno La Maire e il leader di Syriza Alexis Tsipras, si sono scontrate le varie posizioni in campo: le politiche continuiste, appena attenuate da qualche cenno alla flessibilità; il tentativo di rinvigorire l’acciaccato asse franco tedesco; il populismo di estrema destra di Wilders, che ha esplicitato apertis verbis l’augurio a Salvini perché torni presto a guidare l’Italia in quanto «un eroe, un leader del movimento anti immigrazione».
Tsipras invece non ha nascosto il sollievo per la sconfitta salviniana ed ha riproposto un fronte comune dei paesi del Sud per cambiare le politiche della Ue e in particolare quelle della Germania. La quale si trova in sempre peggiori acque. Le annunciate modifiche rispetto alla rigidità di bilancio appaiono tardive e timide in un paese nel quale la fiducia degli imprenditori sul futuro della manifattura è in forte ribasso, mentre l’unico impulso è dato dagli investimenti nelle costruzioni, che aumentano i costi dell’abitare e profilano nel breve una bolla immobiliare.
Ormai appare difficile per i tedeschi evitare la recessione tecnica. La produzione industriale è calata nel luglio scorso, mese su mese, dello 0,6%, contro le aspettative di un sia pur modesto rialzo. Il settore dell’automotive è in caduta libera. E quindi anche il mitico export tedesco ne risente. La politica neomercantile e l’ossessione del debito pubblico (degli altri) della Germania ha strozzato la Grecia e approfondito la crisi della Ue, ma ora le si ritorce contro come succede al famoso apprendista stregone di Goethe. Ma anche dal resto del mondo non arrivano buone notizie. La guerra commerciale con la Cina fa male a entrambi i paesi, in particolare agli States, dove rallenta persino l’occupazione povera. Dal canto suo la Cina è al di sotto delle previsioni di crescita del governo, anche se si colloca su un 6%.
Nel nostro paese le cose vanno male e neppure creano stupore. La nota dell’Istat diffusa l’altro ieri spegne le speranze di una miniripresa nella seconda metà dell’anno. Il presunto tesoretto lasciato da Tria in eredità impallidisce al cospetto del costo finanziario dei mesi in cui il differenziale tra Bund e Btp è cresciuto, qualcosa come 18-20 miliardi secondo l’Osservatorio sui conti pubblici della Cattolica.
Il buon accoglimento del nuovo governo da parte della grande maggioranza degli autorevoli partecipanti al Forum di Cernobbio fa vetrina, ma non fa rinascere il paese. Ciò che più preoccupa a livello internazionale sono i segnali che provengono dalla discesa dei rendimenti dei titoli di stato a lunga scadenza – molti sono in terreno negativo da tempo – sotto quella dei titoli a breve. Segno inequivocabile che alla solidità delle varie economie nessuno crede. Del resto la storia insegna che simili movimenti nei rendimenti obbligazionari sono indicatori di una probabile nuova fase recessiva. L’ipotesi di una stagnazione secolare è più che distopia.
Di fronte a questa situazione la politica monetaria appare un palliativo sempre meno efficace. Powell annuncia una riduzione dei tassi da parte della Fed, ma per Trump è sempre «troppo tardi». Dal canto suo la Lagarde segue il tracciato di Draghi e assicura che la Bce sarà «accomodante». La liquidità però non risolve i problemi dell’agognata crescita, specialmente se la si concepisce secondo il mainstream dominante, ma prepara la trappola. L’ennesima.