Il Mes sarebbe un passo indietro. E nessun paese lo ha chiesto

di Alfonso Gianni - Il Manifesto - 21/10/2020
Se anziché lo screditato Mes, le istituzioni europee avessero proposto uno strumento simile al Sure, per la sanità, proposto da Francesco Saraceno, forse le cose sarebbero diverse

Non passa giorno che non si accentui la pressione sul governo affinché ricorra ai prestiti del Mes. La questione fino a poco fa divideva i due maggiori partiti della maggioranza ma nelle ultime ore si è trasferita, con inusitata virulenza, all’interno dello stesso Pd, una parte del quale è entrato in frontale polemica con il «suo» ministro dell’economia Gualtieri, reo di essere sceso dalle barricate pro Mes. Sul tema sarà convocata la direzione del Pd. Sarà tra gli argomenti principali del vertice di maggioranza che dovrebbe ridefinire un patto di fine legislatura e sarebbe previsto dopo gli stati generali del M5s che dovrebbero a loro volta chiarire quale è la linea vincente al loro interno. Certamente la risposta fornita nella conferenza stampa di domenica scorsa da Presidente del Consiglio è servita solo a confondere ancora più le acque.

Eppure il nodo non appare affatto così difficile da sbrogliare, se si guarda alla sostanza delle cose. Il Mes è una linea di credito precauzionale regolata dal Trattato del 2012 che lo creava come una sorta di banca e dalla normativa europea contenuta nel Two Pack del 2013. Quindi si tratta di un organismo nato in ambito intergovernativo. Il ricorso ad esso non farebbe che aggravare l’aspetto più negativo dell’accordo del 21 luglio – i poteri del Consiglio europeo formato dai rappresentanti dei governi – che pure dava vita ad una logica e a una strumentazione derivanti dagli organi dell’Unione. Da un punto di vista che guarda alla possibilità di far fare dei passi in avanti in una direzione federale alla Ue, il protagonismo del Mes sarebbe un netto passo indietro. Ciò che preoccupa non sono le condizionalità, che non potrebbero non esistere, ma in questo caso le finalizzazioni sarebbero positive, visto che i fondi sarebbero indirizzati alla sanità. Il che garantisce che al Mes possono accedere anche paesi che non vantano grande solidità nelle finanze pubbliche. Ma essendo il Mes una banca non solo agisce negli interessi dei creditori, ma vanta una condizione di creditore privilegiato. Da qui deriva la «sorveglianza rafforzata» cui il paese debitore viene sottoposto.

È vero che la dichiarazione scritta di Gentiloni e Dombrovskis sospende l’eventualità che la Commissione intervenga per chiedere al paese in questione aggiustamenti macroeconomici, ma questa, al di là del suo valore politico, non impegna per il futuro. A meno che non si cambino le norme contenute nel Regolamento 472/2013. Il che, e non credo per una svista, non è stato fatto. Tutto ciò rende più che comprensibile e logica la diffidenza verso il ricorso al Mes. Non è un caso che nessuno finora lo abbia chiesto, al di là del conteggio sui risparmi sugli interessi rispetto ad un approvvigionamento sul mercato finanziario, peraltro ulteriormente diminuiti. In ogni caso il ricorso al Mes aumenterebbe il livello di indebitamento, creando probabilmente anche problemi di natura politico-contabile, essendo già stata approvata dal Parlamento la Nadef e quindi già fissato il deficit del prossimo anno, la cui modificazione, qualunque ne sia l’entità, richiederebbe una nuova valutazione sullo scostamento di Bilancio, oppure la previsione di altri tagli o nuove entrate.

È vero che tutto sembra cambiato in Europa. Dove si predicava l’austerità ora si invita all’indebitamento data la discesa dei tassi. Ma dopo tanti anni di ottuso rigore, sarebbe strano attendersi una fiducia spensierata nell’incremento della esposizione debitoria. E infatti Spagna e Portogallo oltre che evitare il Mes, sono intenzionati anche a rinunciare alla quota di prestiti del Recovery Fund, e a farsi bastare le sovvenzioni a fondo perduto. Se anziché il vecchio e screditato Mes, nato per altre finalità, le istituzioni europee avessero avanzato l’idea di uno strumento simile al Sure, dedicato però alla questione sanitaria, come ha proposto Francesco Saraceno, ovvero uno strumento di credito agevolato derivante dall’art.122 del Trattato sul funzionamento della Ue, forse le cose oggi sarebbero diverse. Ieri sono stati raccolti 235 miliardi di domanda per i primi 20 miliardi del Sure social bond. Non siamo a veri e propri Eurobond, ma comunque all’emissione di titoli di debito comune, uno degli aspetti positivi del «compromesso» europeo del 21 luglio.

E forse ci si potrebbe, come si dovrebbe, occupare seriamente di come spendere i soldi del Recovery la cui data di arrivo si spinge sempre più in là nel 2021. Cosa in sé negativa, ma che impone una discussione seria su un’idea di intervento pubblico diretto nell’economia non crocerossino, ma proprio di uno Stato innovatore ed imprenditore. Guidato da una programmazione, concetto desueto quanto valido, basata su un rapporto dialettico e biunivoco con le parti sociali, partendo dalla difesa del lavoro e del reddito senza delegare la vita – è il caso di dirlo in questa tempesta pandemica – delle persone alle logiche aziendali. Privilegiando il nostro Sud, porta dell’Europa sul Mediterraneo.

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