Sono in molti ad avere considerato le proposte emerse dalla Commissione europea come un positivo passo in avanti, addirittura inaspettato per come erano messe le cose. L’ex ministro Vincenzo Visco, uomo poco amante delle espressioni enfatiche, le ha definite fortemente innovative “forse addirittura di portata storica” (“Le posizioni tedesche sul fondo e la missione dell’Unione europea”, Il Sole24Ore dell’11 giugno). Altri hanno parlato di un Hamilton moment, riferendosi alla figura e all’opera di Alexander Hamilton (1755-1804), primo ministro del Tesoro della nuova nazione americana, che si batté con l’appoggio del presidente Washington per il rafforzamento del potere federale, per l’istituzione di una banca nazionale e per la creazione di un unico sistema monetario.
Il guaio è che, come si suole dire, il gatto non è ancora nel sacco. Anzi bisogna lavorare parecchio per farcelo entrare. Lo confermano le difficoltà incontrate nella riunione dell’Eurogruppo del 10 giugno. Al punto che negli ambienti di Bruxelles si ritiene che neppure il Consiglio europeo previsto per il 19 giugno risulterà decisivo e che quindi la questione si trascinerà almeno fino alla successiva riunione nel mese di luglio del Consiglio che però si terrà in presenza, visto che la videoconferenza è uno strumento che non aiuta a sbrogliare matasse particolarmente complesse. I ministri finanziari giovedì scorso hanno discusso soprattutto del semestre europeo e della questione cruciale dell’unione bancaria, in particolare del regime di garanzia dei depositi, tema su cui il progetto è inchiodato da mesi. Contemporaneamente in un castello sito nel sud-est della Repubblica ceca, i primi ministri del gruppo di Visegrad (Ungheria, Polonia, Cechia e Slovacchia) hanno di fatto tenuto un controvertice che metteva sotto accusa la proposta Von der Leyen.
Per l’ungherese Orban quest’ultima “è filosoficamente (!) molto lontana da ciò che pensiamo del mondo, occorre guadagnare i soldi prima di spenderli”. Certo, se la si pone sul piano dello scontro delle filosofie – anche se quella di Orban si presenta alquanto mediocre – la questione diventa irresolubile. In realtà di tratta di miserrimi interessi egoistici, per cui i paesi del gruppo Visegrad godono dei benefici di stare in Europa senza pagarne il minimo prezzo. Se si sommano queste aspre prese di posizione all’avversità alle proposte della Commissione manifestate, seppure con toni meno ultimativi, dai paesi cosiddetti frugali – meglio sarebbe dire tirchi – cioè Olanda, Austria, Svezia e Danimarca, si vede che la strada è ancora tutta in salita. I 750 miliardi del Recovery Fund sono ancora un obiettivo, non una riserva sicura e acquisita. Infatti il ministro delle Finanze tedesco Olaf Scholz insiste perché sia ridotto a di 500 miliardi di euro. Le dimensioni del Recovery Fund suggerite dal ministro tedesco sono in linea con quanto originariamente proposto da Francia e Germania, una proposta, secondo Scholz, “formulata in modo molto intelligente”.
La stessa controversa questione del Mes appare tutto sommato come un diversivo rispetto a quello che è il vero terreno di scontro: quello della dimensione complessiva delle risorse finanziarie messe a disposizione dal Recovery Fund; stabilire che la quantità degli aiuti sia il doppio di quella dei prestiti; mettere in piedi un sistema di debito pubblico comune; rimpolpare il misero bilancio della Ue; finanziarlo non solo con l’aumento delle quote dei singoli stati membri ma anche con tassazioni europee, come la carbon o la web tax.
La novità rispetto al passato sarebbe infatti proprio quest’ultima, perché farebbe fare un passo in avanti verso la costruzione di una vera unione europea e non di un insieme intergovernativo, per giunta litigioso, quale essa è adesso. Ma questa novità, secondo alcuni appunto “di portata storica”, sarebbe del tutto vanificata se le condizionalità che si temono per il Mes, venissero trasferite o addirittura peggiorate sugli aiuti. Appare evidente che non trattandosi di prestiti, ma di sovvenzioni non si può pretendere che queste siano prive di un indirizzo da parte di chi le dà. Il problema è sulla natura di questo indirizzo. Un conto è se questo comporta, per dirla in breve, un taglio allo stato sociale, un altro è se spinge verso l’utilizzo di investimenti pubblici in una direzione, contrattata e concordata a livello europeo, che riguardi aspetti innovativi per l’economia e portatori di nuova occupazione.
Il Commissario Paolo Gentiloni (vedi l’articolo di Pollio Salimbeni su Il Messaggero del 12 giugno) ha cominciato a mettere le mani avanti affermando che la richiesta di piani nazionali per accedere ai fondi non è la premessa a “un salvataggio come quelli per Grecia, Portogallo e Spagna – le vittime del Mes, appunto – cui abbiamo dato un nome più gentile: sono piani che partono dalle priorità di ciascun paese, coordinati con la Commissione. Non hanno come obiettivo la riduzione del deficit e del debito, ma certamente – ha aggiunto come in una sorta di riflesso pavloviano – i paesi che hanno un debito molto alto” devono porsi il problema di evitare che cresca. Ma proprio il succedersi di precisazioni e controprecisazioni, di affermazioni seguite da molti ma e se, quando non di nette contrapposizioni, indica che il cammino da compiere è assai scivoloso. Oltretutto non è facilitato dai tempi.
Per quanto riguarda il nostro paese è urgente che aiuti e prestiti giungano subito. Al contrario la proposta della von der Leyen, se verrà confermata nella sua attuale versione, richiede comunque diversi mesi per entrare pienamente in funzione. Non prima del 2021. Per questo il richiamo dei “soldi subito”, costituito da un ricorso ai finanziamenti del Mes, peserà in modo decisivo sullo stesso dibattito parlamentare cui Conte si è affidato per il prossimo luglio per decidere sulla vexata quaestio. Nello stesso tempo la sua richiesta di un “ponte”, ovvero delle anticipazioni del Recovery Fund, che fornisca al nostro paese immediata capacità di spesa non sembra incontrare consensi in Europa. Almeno finora.
Da qui la pressione all’interno dello stesso governo per fare votare al parlamento un terzo “discostamento” dagli obiettivi di bilancio per ulteriori 10 miliardi di euro. Ma la partita vera si giocherà sulla qualità dei progetti che il governo porterà a Bruxelles per accedere ai fondi. E qui la faccenda si fa davvero buia. Il piano Colao è un totale fallimento, al punto che lo stesso Conte lo ha già derubricato a semplici “schede di lavoro” (vedi l’intervista al Presidente del Consiglio a Repubblica del 12 giugno). L’incontro di Villa Pamphili appare come una lunga passerella con cui Conte sembra volere più impressionare i leader europei che non avere in tasca le soluzioni per convincerli. Tuttavia continua a insistere su progetti di ampio respiro da presentare a settembre, che hanno però dei pesanti vizi di continuità con il passato. Come l’intento di “introdurre norme temporanee per superare i vincoli burocratici in modo da fare partire subito i cantieri” (intervista a Conte de IlSole24Ore del 12 giugno), quando in realtà si tratta non di inutili vincoli ma di indispensabili norme di sicurezza per chi lavora. Tra questi progetti, anche se dopo il completamento di necessarie infrastrutture ferroviarie in terra ferma, come la linea Reggio Calabria-Taranto, torna a fare capolino persino il ponte sullo stretto di Messina. E qui il libro dei sogni si converte di colpo in quello degli incubi. Come al solito manca la volontà di svoltare con decisione rispetto al passato, anzi si finisce per trascinarselo dietro con le conseguenze che il vecchio affonda il nuovo.
Per questo insisto, come ho già fatto la settimana scorsa, che dovrebbe essere il sindacato, la Cgil in particolare – mettendo da parte le suggestioni che vengono specialmente dalla Cisl sulla ripresa di una stagione concertativa – ad essere il centro propulsivo per nuove idee e progetti che ci portino fuori dalla recessione difendendo diritti e retribuzioni dei lavoratori e al contempo spianando la strada a un diverso e possibile sviluppo sociale del nostro paese. È l’unico modo perché non si sprechi la crisi tornando a come si era prima. Anzi peggio.