Una volta sconfitta la pandemia in corso che mondo troveremo? E prima ancora dovremmo chiederci, visto che fino a quando non viene sviluppato un vaccino efficace il virus continuerà ad essere un pericolo costante, come sarà possibile convivere con la sua persistenza, seppure contenuta? E’ una domanda a tutto tondo. Sia perché riguarda ogni ramo dell’attività umana, da quello produttivo a quello ricreativo e riproduttivo, sia perché coinvolge tutto il mondo. Per queste ragioni rispondere o almeno tentare di farlo, ad una simile domanda, significa praticare molti piani e terreni, entrare in diversi ordini di questioni, anche se qui ci limiteremo a prendere in esame le questioni da un punto di vista economico e sociale.
Quando Mario Draghi, nel suo ormai famoso intervento sul Financial Times del 25 marzo definì la pandemia di Covid-19 come “una tragedia umana di proporzioni potenzialmente bibliche”, qualcuno pensò che l’insolita enfasi delle parole usate da un uomo misurato nelle esternazioni pubbliche, nascondesse qualche progetto di autoinvestitura nella tormentata vicenda italiana. Era una lettura dal buco della serratura, non infrequente dalle nostre parti, ove la dietrologia si accompagna a un provincialismo di antiche origini. In realtà con quell’intervento Draghi forniva una lettura più che realistica della situazione pandemica e delle sue conseguenze economiche nel quadro mondiale e allo stesso tempo indicava la necessità, anzi la drammatica urgenza, di un intervento a ogni livello del potere politico pubblico a partire dall’Unione europea. D’altro canto l’ex presidente della Bce aveva da tempo ammonito che la sola politica monetaria sarebbe stata insufficiente per fare uscire l’Europa in salute dalla crisi del 2008. Figuriamoci da questa. “Esitare adesso – scrive Draghi sempre in quell’articolo - può avere conseguenze irreversibili: ci serva da monito la memoria delle sofferenze degli europei durante gli anni Venti”. Se il parallelismo tra emergenza sanitaria causata dalla pandemia e una guerra mondiale è ovviamente sbagliato, quanto purtroppo abusato, del tutto convincente è la previsione che, una volta sconfitto il morbo, troveremo un mondo in condizioni tali da richiamare alla memoria i periodi di ricostruzione postbellica.
La crisi è stata provocata da un shock esogeno, si è sentito dire frequentemente. Il che è solo parzialmente vero. Le grandi epidemie – ce lo ha ribadito quel bel libro di Jared Diamond Armi, acciaio e malattie1- hanno segnato la storia dell’umanità e la geografia dei suoi insediamenti da oltre tredicimila anni. Ben prima, quindi, della nascita e lo sviluppo del capitalismo. Ma la velocità con la quale il Covid-19 ha invaso il mondo senza risparmiare nessun luogo e nessuna popolazione, il ripetersi di fenomeni pandemici entro lassi di tempo sempre più contratti hanno molto a che fare con le modalità di funzionamento del capitalismo su scala mondiale, con i percorsi delle catene
del valore, con la moltiplicazione degli spostamenti di persone e cose, con lo sfruttamento intensivo della terra, gli allevamenti concentrati di animali destinati all’alimentazione, il deterioramento dell’aria, del suolo, delle acque.
Si moltiplicano e diventano assai più frequenti le crisi sanitarie così come quelle economico-finanziarie. La crisi attuale non ha paragone che con quella del ’29, le cui conseguenze è probabilmente destinata a superare. E’ una crisi universale che raccoglie in sé, prolunga e dilata le crisi precedenti. Specialmente laddove queste non erano state smaltite. Come quella iniziata negli Usa nel 2007 e approdata in Europa l’anno seguente senza averla ancora abbandonata.
Le cifre della crisi economica
Il World Economic Outlook del Fondo monetario internazionale pubblicato il 14 aprile fornisce cifre impietose sul drammatico stato di salute dell’economia mondiale. Nella prefazione al Rapporto la capoeconomista del Fmi, Gita Gopinath, afferma che la recessione generata dalla pandemia “fa impallidire” quella prodotta dalla crisi economico-finanziaria globale del 2009. Infatti l’economia mondiale, secondo l’Fmi, calerà del 3% nel 2020. Un crollo di proporzioni inedite, cui farebbe seguito nell’anno successivo una ripresa del Pil globale, “molto incerta”, del 5,8%. Nel biennio “la perdita complessiva di Pil globale potrebbe essere di circa 9 mila miliardi di dollari, superiore alla somma delle economie di Giappone e Germania”, ha sottolineato Gobinath nell’intervento introduttivo che accompagna la diffusione del Rapporto. La differenza rispetto alla precedente già gravissima crisi di 11 anni fa è evidentissima se si considera che nel 2009 la perdita di Pil mondiale si era limitata allo 0,1%. «Questa – ribadisce l’economista- è una crisi veramente globale poiché nessun paese è risparmiato» con impatti «particolarmente forti» per i paesi che dipendono «dal turismo, dai viaggi, dall’ospitalità e dall’intrattenimento». «Per la prima volta dalla Grande Depressione, sia le economie avanzate sia i mercati emergenti e le economie in via di sviluppo sono in recessione», conclude Gopinath.
Si tratta di una crisi che aggredisce l’economia mondiale contemporaneamente dai due lati, quello della domanda e quello dell’offerta, il che, come vedremo, ha conseguenze rilevantissime sul come uscirne.
Ma l’analisi del Fmi fornisce per il prossimo futuro scenari ancora peggiori. Il rimbalzo del 2021 è incerto soprattutto perché la sua potenzialità è legata alla scomparsa della pandemia nella seconda metà del 2020. Ipotesi che più il tempo passa più appare improbabile, dal momento che la sua sconfitta è legata all’esistenza di vaccini e farmaci efficaci che per ora sono solo in via di ricerca o di prima sperimentazione. Gli analisti del Fmi avanzano prudentemente perciò tre possibili scenari, tutti peggiorativi di quello principale già così poco allegro. Se il tempo per fermare il contagio fosse più lungo la recessione sarebbe di tre punti maggiore, cui seguirebbe un rimbalzino di un solo punto percentuale nell’anno che viene. Ma se il 2021 ci presentasse la continuazione o la ripresa dell’ondata pandemica, anche quel punticino sparirebbe o cambierebbe di segno. Infine, se si sommassero i due scenari di cui sopra, l’esito sarebbe una recessione anche nel 2021 di 8 punti di Pil in meno rispetto a + 5,8% stimato.
Per quanto riguarda l’Eurozona la recessione penalizzerà – siamo nel primo scenario, quello meno peggiore – il nostro paese con una caduta del Pil nell’anno in corso pari al 9,1%. Le stime della Banca d’Italia sono un poco meno drammatiche, ma è chiaro che in poche settimane tutto è cambiato. Dallo 0,6% in più a 8,5 in meno, mentre nel 2009 la contrazione del Pil si fermò al 5%. Farà peggio di noi solo la povera Grecia (-10%), mentre duramente colpite saranno anche Germania (- 7%) e Francia (-7,2%). Anche per gli Stati uniti la prospettiva è pessima (- 5,9% di Pil), mentre la Cina resterà in positivo, ma solo per 1,2%.
Il rapporto del Fmi si sofferma ovviamente anche sul quadro occupazionale che per l’Italia vede salire la disoccupazione dal 10% al 12,7%, raddoppiarsi al 14% in Portogallo, salire in Spagna al 20,8% e in Grecia al 22,3%. Solo la Germania si manterrà su livelli di disoccupazione leggermente superiori a quella che viene definita frizionale, sotto il 4%, mentre la media dell’Eurozona salirà al 10,4%. E bisognerà sempre ricordare che i maquillage effettuati ai criteri di calcolo dell’occupazione permettono di considerare in tale condizione anche chi lavora solo un’ora alla settimana. Si tratta quindi di un’occupazione con una larga percentuale di lavori precari, minimali e occasionali.
Anche oltreoceano la disoccupazione picchierà forte e probabilmente influenzerà in un modo o nell’altro gli orientamenti elettorali negli Usa (sempre che le elezioni si tengano come previsto ai primi di novembre). Rilevazioni ancora più recenti di quelle contenute nel già citato Rapporto del Fmi ci informano che ad aprile negli Usa 20,5 milioni di persone hanno perduto il lavoro: 18,5 milioni in congedo temporaneo ma senza stipendio, mentre i rimanenti 2,5 milioni sono stati direttamente licenziati. Vista l’assenza di ammortizzatori sociali questo spiega la rilevante erogazione di fondi nella quale è impegnata la Federal Reserve. Il tasso di disoccupazione è salito al 14,7%, quindi più del triplo del 4,4% di marzo e del 3,5% di febbraio, che era il livello più basso degli ultimi cinquant’anni. Il risultato attuale è comunque il peggiore dall’agosto del 1932. Naturalmente a pagare il prezzo maggiore della crisi sono i lavoratori afroamericani, tra i quali la disoccupazione riguarda il 16,7%, e quelli ispanici, tra cui i disoccupati raggiungono il 18,9%.
Lo straordinario messaggio pasquale di Papa Francesco
Papa Francesco non ha aspettato la pubblicazione dei dati del Fmi e nel giorno di Pasqua ha tenuto un discorso di rara tensione morale e politica, molte spanne al di sopra delle elites politiche europee per non dire mondiali. Ha chiesto “un cessate il fuoco globale e immediato in tutti gli angoli del mondo” aggiungendo che “non è questo il tempo in cui continuare a fabbricare e trafficare armi, spendendo ingenti capitali che dovrebbero essere usati per curare le persone e salvare vite” nella ricerca e nella costruzione di una pace definitiva. E’ entrato nel merito delle grandi questioni economiche e ambientali che affliggono il mondo. Ha incoraggiato “quanti hanno responsabilità politiche ad adoperarsi attivamente in favore del bene comune dei cittadini, fornendo i mezzi e gli strumenti necessari per consentire a tutti di condurre una vita dignitosa”. Ha sottolineato la necessità che “si mettano in condizione tutti gli Stati di fare fronte alle maggiori necessità del momento, riducendo, se non addirittura condonando, il debito che grava sui bilanci di quelli più poveri”.
Infine ha avvertito l’Unione europea della “sfida epocale” che ha di fronte a sé “dalla quale dipenderà non solo il suo futuro, ma quello del mondo intero”. Per questo – ha insistito il Pontefice – “non si perda l’occasione di dare ulteriore prova di solidarietà, anche ricorrendo a soluzioni innovative” dal momento che “l’alternativa è solo l’egoismo degli interessi particolari e la tentazione di un ritorno al passato, con il rischio di mettere a dura prova la convivenza pacifica e lo sviluppo delle prossime generazioni”. Ma non si può dire purtroppo che queste parole, così penetranti e puntuali, abbiano trovato finora un conseguente riscontro tra i leader europei.
Il deludente quadro delle riunioni dei vertici europei
A giudicare dalle riunioni che hanno preparato quella del Consiglio europeo del 23 aprile non vi era da navigare nell’ottimismo. Di questo si è accorto anche il Presidente del Consiglio italiano. Infatti la sua infuocata conferenza stampa in diretta televisiva del 10 aprile – che tante critiche, per lo più a sproposito, ha ricevuto per l’aggressivo attacco all’opposizione di destra – se aveva un pregio era certamente quello di ridimensionare l’entusiasmo del tutto fuori luogo sparso nelle prime ore dal ministro Gualtieri sugli esiti dell’Eurogruppo virtuale del giorno prima. Il secondo tempo della partita era ancora da giocare, ma il primo tempo, per rimanere nelle metafore calcistiche usate dal nostro ministro dell’economia, non è affatto andato bene per i paesi che si contrapponevano al fronte del rigorismo capitanato da Germania e Olanda.
La ragione è semplice. Il punto discriminante era, ed è, la messa in campo o meno degli euro o coronabonds che dir si voglia. Ma nel documento finale non compare neppure la parola. Nella parte dedicata al Recovery Fund, la soluzione voluta in particolare dalla Francia e sostenuta dall’Italia, si dice solo che si è convenuto “di lavorare su un fondo di recupero … temporaneo, mirato e commisurato ai costi straordinari dell’attuale crisi … fatte salve le indicazioni dei Capi di governo, le discussioni sugli aspetti giuridici e pratici di tale fondo, comprese le sue relazioni con il bilancio dell’Ue, le sue fonti di finanziamento e gli strumenti finanziari innovativi, coerenti con i trattati dell’Ue, prepareranno il terreno per una decisione”. Quindi tutto è stato rimandato al Consiglio europeo del 23 aprile in una situazione di totale incertezza. Sappiamo che il fronte del rigore non voleva neppure che si usasse il termine “lavorare” riferito al da farsi sul Fondo di recupero, che avrebbe preferito un termine ancora più vago, ma ciò che purtroppo conta è che il termine bonds è rimasto escluso e la dichiarazione della Merkel contraria ai medesimi ha trovato piena conferma. Come si faccia a presentare tutto ciò come una vittoria è francamente incomprensibile. Si è trattato di un compromesso al ribasso, di un brutto accordo. In sostanza il nocciolo della questione, ovvero la mutualizzazione dei rischi del debito non è passata. Né le incertezze e le ambiguità risultano superate dalla risoluzione, peraltro non vincolante, approvata a maggioranza dal Parlamento europeo il 17 aprile nella quale si esortano i Ventisette a qualche forma di mutualizzazione dei debiti pubblici per rispondere allo shock economico provocato dalla pandemia. Le cose sarebbero state più chiare e nette se fosse passato l’emendamento proposto dai Verdi ma, appunto, così non è stato. Naturalmente la risoluzione alternativa dal taglio programmatico presentata dal Gue/Ngl non ha avuto miglior fortuna. Ci si può aggrappare – ma non è affatto una posizione fortissima - al fatto che poiché il testo - appoggiato da popolari, liberali e socialisti ma con divisioni, soprattutto nel mondo politico italiano – invita Bruxelles a “proporre un massiccio programma di rilancio i cui investimenti sarebbero finanziati da un accresciuto bilancio europeo cosi come da obbligazioni per la ripresa garantite dallo stesso bilancio comunitario, senza comportare la mutualizzazione del debito esistente”, non risulterebbe invece esplicitamente esclusa la mutualizzazione di debiti futuri. Ma ciò che avrebbe dovuto diventare il cuore del documento, pur non vincolante, è stato lasciato nel vago. La Commissione europea, che avrebbe dovuto presentare una proposta circostanziata in materia, ha rimandato di diversi giorni l’appuntamento, segno che le ostilità dei paesi nordici sono tutt’altro che piegate.
L’intricata questione del Mes
Abbiamo invece un Mes (Meccanismo europeo di stabilità), cui il governo italiano è incerto se ricorrere o meno a causa delle divisioni interne, particolarmente fra Pd e M5stelle. L’Eurogruppo dell’8 maggio ha raggiunto un accordo sui termini dei prestiti del Mes. Questi - con una mediazione sulla loro durata tra le posizioni all’italiana e quelle molto più restrittive all’olandese - avranno una scadenza a dieci anni, un tasso annuale a 0,1%, per un costo una tantum di 0,25% e un costo annuale di 0,005%. Le richieste potranno essere fatte fino alla fine del 2022, salvo possibili prolungamenti del termine. I vari paesi potranno accedere alle linee di credito per il finanziamento dei costi diretti e indiretti delle spese sanitarie, di cura e di prevenzione dovuti alla crisi del Covid-19. Uno dei punti delicati sarà appunto l’interpretazione di cosa possa essere compreso all’interno della dizione “spese sanitarie indirette”. Se venissero compresi anche gli investimenti per le bonifiche territoriali e ambientali, sarebbe un passo in avanti. La sorveglianza – altro punto delicatissimo – sul corretto utilizzo dei prestiti ottenuti sarà realizzata dalla Commissione Ue e dovrebbe essere limitata al controllo che i fondi siano impiegati nei settori predefiniti dall’accordo con i governi. L’importo totale del fondo sarà definito in base al prodotto interno lordo (Pil) fino al 2% e sarà calcolato tenendo conto delle conseguenze patite da ogni singolo paese a causa della pandemia. Nelle condizioni attuali l’Italia otterrebbe fino a 36 miliardi di euro ai tassi stabiliti. Alla fine dell’emergenza sanitaria, non prima della commercializzazione del vaccino ancora da trovare, dovrebbe rientrare in funzione il patto di stabilità e crescita, attualmente sospeso dalla Commissione Ue. Il documento finale dell’Eurogruppo ribadisce la formula usata a questo riguardo dal vicepresidente della Commissione Ue Valdis Dombrovskis e dal commissario all’economia Paolo Gentiloni nella lettera inviata giovedì 7 maggio al presidente dell’Eurogruppo Mario Centeno.
I sostenitori fin dal primo momento dell’intervento del Mes si sono ovviamente affrettati nel rassicurare che non potranno essere introdotte condizioni aggiuntive nei confronti dei paesi che vi faranno ricorso. “Non c’è alcuno stigma” (da parte dei mercati finanziari) e “non c’è nessun tipo di Troika per la sorveglianza dopo l’accesso” ha aggiunto Mario Centeno. Il Presidente del Parlamento europeo David Sassoli ha addirittura affermato, con l’occhio rivolto all’Italia, che coloro che hanno dubitato del Mes dovrebbero chiedere scusa.
In realtà se qualche passo in avanti è stato fatto con le ultime decisioni, le preoccupazioni della vigilia non sono del tutto fugate. Infatti le normative non sono state modificate. Esiste solo una decisione politica da parte dell’eurogruppo che si fonda sulla lettera prima citata. E’ vero, soprattutto nel caso di un organismo intergovernativo quale è il Mes, che una volontà politica sottoscritta ha il suo peso, ma non costituisce una garanzia assoluta quale sarebbe rappresentata da una riscrittura delle norme che regolano il funzionamento del Mes e dei prestiti. Anche perché gli attori politici potrebbero nel frattempo cambiare. Per ovviare a questo stato di incertezza, quindi sospendere ad hoc il regolamento 472/3013, dovrebbe essere sufficiente adottare norme fondate sulla sua stessa base giuridica che prevedono il ricorso alla procedura legislativa ordinaria (ovvero l’approvazione da parte del Parlamento europeo e del Consiglio seppure a maggioranza qualificata). L’iniziativa legislativa è prerogativa della Commissione ma può essere sollecitata dal Parlamento europeo. Il che però non è stato ancora fatto. Ha quindi perfettamente ragione Francesco Saraceno1 a parlare di “inconsistenza temporale”, ovvero un impegno ‘politico’ assunto oggi non può vincolare le decisioni future. Perciò non è del tutto affidabile, o non lo è sufficientemente, anche se alcune interpretazioni delle norme statutarie traggono la conclusione che l’Italia potrebbe avere un diritto di veto rispetto alla riproposizione di condizioni non accettabili. In altre parole il quadro normativo esistente non garantisce affatto il carattere light del Mes che invece, se non si modificassero le norme, dovrebbe essere garantito essenzialmente per via politica. Il che comporta, per chi vi ricorrerà, uno stato costante di allerta e di predisposizione ad affrontare fasi di scontro politico a livello europeo per evitare che gli eventuali prestiti si trasformino in un cappio. Il Mes infatti non è un’istituzione
caritatevole, come sanno bene i paesi che sono stati indotti a farvi ricorso, quali Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda, Cipro, ma praticamente una banca che agisce con il cuore sempre dalla parte del creditore. Fornisce prestiti, non aiuti. Da restituire, e il vantaggio per l’Italia sarebbe solo, anche se non da trascurare, negli interessi più bassi che essa dovrebbe pagare rispetto ad un indebitamento sui mercati finanziari.
Problemi e rischi del ricorso al Mes
Per quanto riguarda la decisione o meno di ricorrervi da parte del nostro paese saranno determinanti gli esiti della discussione in Parlamento. Il che è in sé un fatto positivo poiché restituisce all’istituzione parlamentare un poco di quel ruolo che le è stato sottratto negli ultimi tempi e in particolare dall’inizio della pandemia. Anche se non sarà una discussione facile soprattutto perché da un lato attorno al tema Mes si aggrappano posizioni di pura strumentalità in particolare da parte delle destre, e dall’altro il tema rischia di oscurare quello che in realtà sono i punti fondamentali su cui la Ue dovrebbe fare un balzo in avanti, ovvero il funzionamento del Recovery Fund, la percentuale tra gli aiuti e i prestiti, l’istituzione degli eurobond.
Ma soprattutto vi è anche un altro aspetto che emerge. La cosiddetta non condizionalità vale e dura solo per il periodo della pandemia, finita la quale tornano a funzionare le vecchie regole, come del resto è stato scritto nel comunicato finale dell’Eurogruppo ove si chiarisce che i prestiti sarebbero fatti nel quadro delle linee esistenti (le Eccl) “seguendo le disposizioni del Trattato Mes”. Ovvero si vuole rimettere la porta sui vecchi cardini appena finisce il flagello epidemico, il che evidenzia la convinzione che tutto possa tornare come era prima, per quanto riguarda gli indirizzi finanziari, economici e produttivi. Esattamente come si è fatto dopo la fase acuta della precedente crisi economico-finanziaria iniziata nel 2007-2008.
Le stesse formulazioni usate nell’accordo sottoscritto l’8 maggio escludono in partenza qualsiasi volontà di trasformazione o di semplice modificazione del modello di sviluppo economico. Per fare solo un esempio, le spese per dotare il nostro paese di un servizio sanitario nazionale efficiente in ogni angolo dello stivale e pronto a sopportare emergenze sanitarie sempre più frequenti non possono essere catalogate semplicemente come spese sanitarie, ma sono un investimento in difesa di un diritto primario che ha la forza di indirizzare e sviluppare l’intera economia per finalità diverse da quelle del passato. Se quindi, passata la pandemia, si dovesse sottostare alle vecchie norme del patto di stabilità, non si potrebbe operare alcuna trasformazione nel modello produttivo e sarà impossibile sviluppare forme di difesa e di prevenzione verso nuove non improbabili epidemie. In realtà ciò che si dovrebbe discutere ora, proprio perché la crisi costringe tutti, o dovrebbe farlo, a guardare la realtà con occhi diversi, è il cambiamento radicale dei Trattati, delle norme vessatorie e autolesioniste del patto di stabilità e crescita. Nel caso italiano questo significherebbe anche rimettere mano all’articolo 81 della Costituzione cancellando la norma del pareggio di bilancio introdotta ai tempi del governo Monti.
La discussione sul Recovery Fund
In merito a come dovrà essere e funzionare il Recovery Fund, il punto di maggiore attrito, e che rimane del tutto aperto, è se questo fondo erogherà prestiti o sovvenzioni. A favore di questa ultima soluzione si sono ovviamente schierati i paesi più bisognosi, mentre sulla prima opzione stanno quelli del Nord. Ursula von der Leyen non si è sbilanciata e ha quindi annunciato un mix tra le due cose. A favore di aiuti in luogo di prestiti si stanno pronunciando numerosi e autorevoli economisti, giustamente preoccupati dall’appesantimento del debito nei prossimi mesi nei paesi che già l’avevano alto e che hanno pagato un prezzo maggiore alla pandemia in corso. Ad esempio, Lucas Guttenberg, vicedirettore del Jacques Delors Centre di Berlino, insieme ad altri economisti, sostiene nettamente la tesi che l’implementazione del concetto di solidarietà comporta in questa fase la concessione di aiuti. Guttenberg ritiene che gli eurobond non sarebbero lo strumento ideale perché richiederebbero tempo per entrare in funzione. Una cosa però potrebbe non eliminare l’altra: aiuti subito e quindi emissione di eurobond, magari perpetui, tali cioè da non prevedere il rimborso del capitale ma solo la maturazione degli interessi, come ha sostenuto lo stesso George Soros. Il varo degli eurobond è infatti la misura che si proietta più di altre al di là della grave contingenza e permetterebbe un passo in avanti nel travagliato percorso dell’unità europea. Proprio per questo incontra la netta contrarietà delle parti più retrive dell’elite europea.
Lo si comprende facilmente prestando attenzione alle parole di Jens Weidmann, presidente della Bundesbank ed ex consigliere di Angela Merckel. “In Germania – dichiara ad Affari&Finanza del 20 aprile – c’è un ampio sostegno a favore di una solidarietà europea in questa grave crisi. Questo include aiuti in campo medico e gli aiuti finanziari (…) Tuttavia – egli aggiunge – una sostanziale espansione aggiuntiva e a lungo termine della responsabilità comune modificherebbe radicalmente la natura dell’unione monetaria (…), quindi – conclude – la priorità è ora quella di fornire aiuti pragmatici e disponibili in tempi brevi”. In altre parole ciò che potrebbe superare gli storici limiti della Ue, cioè quella di essere solo un’unione monetaria, è esattamente inviso a chi la vuole rinserrare entro quella costrizione. Ma è esattamente questa condizione che la può portare al fallimento.
La necessità e la fattibilità dei coronabonds
Se si guarda all’insieme delle iniziative finora messe in campo dalla Ue, comprendendo le modalità e l’entità degli interventi previsti dal progetto Sure per il lavoro e dalla Bei per le piccole e medie imprese, il quadro non migliora. Complessivamente è prevista una spesa che si aggira attorno ai 540 miliardi. Assolutamente insufficienti: ce ne vorranno molti di più.
Le dimensioni di questa crisi sono mondiali, ancora più ampie di quella, tutt’altro che smaltita in Europa, che partì nel 2007/2008. Non si intravedono né termine né vie d’uscita, anche perché sono legate alla sconfitta del virus che solo lo sviluppo e la libera diffusione di un vaccino possono garantire. Abbiamo già detto che siamo di fronte ad una crisi che si accanisce sia sul lato della domanda che dell’offerta. Soluzioni classicamente keynesiane non sono possibili. Per quanto maggiormente desiderabile in termini di giustizia sociale, un intervento che mirasse solo allo sviluppo dei consumi mettendo in condizione le persone comuni di spendere, avrebbe scarsa efficacia a fronte di una mancata offerta di qualche cosa da comprare. Soprattutto perché questa nuova crisi sottolinea il nesso terribilmente distorto fra modello di sviluppo e di vita e la condizione sociale e ambientale.
La famosa questione del “cosa”, “quanto” e “per chi” produrre torna di drammatica attualità. D’altro canto sono proprio le crisi che possono offrire l’occasione imperdibile per grandi trasformazioni o per il loro esatto e tragico contrario. Quindi bisogna intervenire sul fronte delle imprese con un grande piano pubblico coordinato a livello europeo e contemporaneamente e subito con un sostegno universale al reddito delle persone. Per questa ragione se l’Europa non vuole disintegrarsi è necessario l’intervento di uno strumento comune di debito che distribuisca il rischio tra tutti i membri dell’Unione mettendoli così al riparo da speculazioni di ogni genere.
Come hanno recentemente osservato un gruppo di economisti e di giuristi su un blog tedesco1, qualsiasi proposta di strutturazione di emissioni di obbligazioni ordinarie in Europa deve fare i conti con la famosa disposizione "senza salvataggio" (art.125 del Tfue). Ma questo articolo non si applica ai corona bonds. Il suo scopo è prevenire un salvataggio, vale a dire la mutualizzazione del debito di uno o più Stati membri, come pure la monetizzazione secca del debito, come hanno osservato gli stessi economisti che in un appello l’hanno recentemente caldeggiata. I corona bonds dovrebbero finanziare progetti europei comuni. Anche nella misura in cui i proventi dei corona bonds dovessero venire utilizzati a beneficio dei singoli Stati membri, ciò avverrà comunque nell'ambito di progetti europei comuni. In effetti, l’art. 125, primo comma, del Tfue afferma che l’Unione non si fa carico degli impegni assunti dalle amministrazioni pubbliche ad ogni livello di qualsiasi Stato membro “fatte salve le garanzie finanziarie reciproche per la realizzazione in comune di un progetto specifico”. Quindi l’aggiramento dei vincoli posti dai Trattati non avverrebbe in virtù di ingegnose costruzioni finanziarie, ma in base alla finalizzazione comune dell’investimento. D’altro canto obbligazioni comuni vennero messe in opera a metà degli anni ’70 per aiutare i paesi europei in difficoltà a causa della famosa crisi petrolifera verificatasi in quel periodo, come nel caso delle obbligazioni comunitarie del 1975 stabilite dal regolamento 397/75.
Questo permetterebbe di raggiungere un obiettivo davvero importante: mentre si risponde all’emergenza si tracciano le strade per far fare veri passi in avanti all’unità europea dal punto di vista politico-istituzionale, non solo monetario. Il che imporrebbe immediatamente di ingrandire lo striminzito bilancio europeo, ora limitato all’1% del Pil complessivo. Per farlo la Ue può, anche in base ai Trattati vigenti, “istituire nuove categorie di risorse proprie” (art.311 Tfue) e armonizzare le norme in materia fiscale (si pensi alla carbon tax, alla web tax, alla Tobin tax).
La cecità delle classi dirigenti europee
Alcuni commentatori hanno fatto ironie mal riposte sul concetto di solidarietà, sostenendo che non la si può applicare alle vicende economiche. Lasciamo da parte il fatto che una simile convinzione nasconde una visione della società prigioniera del peggiore modello capitalistico. Essa è falsa anche in base a un ragionamento di pura convenienza economica. Con la rinascita dei protezionismi, con la guerra dei dazi, con il First America di Trump (primo importatore di merci tedesche) e la scelta cinese di puntare sul mercato interno (la Cina è il principale partner commerciale della Germania) dove finiranno le merci tedesche da esportare, colonna dorsale di un’economia mercantilistica come quella teutonica, se il mercato europeo si sfarina, in un quadro già segnato dalla Brexit? Basterebbe questa considerazione per evidenziare tutta la cecità della classe dirigente tedesca e non solo. Eppure gli avvertimenti non sono mancati. Nelle scorse settimane oltre 600 economisti a livello mondiale si sono espressi per una soluzione tipo eurobond; così hanno fatto economisti e intellettuali tedeschi, da Habermas a Honnet, fino all’Istituto di economia di quel paese. Ma la ragione non ha prevalso. Come dicevano i latini “Quos deus perdere vult dementat prius”.
Certo la soluzione ideale richiederebbe che la Bce diventasse effettivamente un prestatore in ultima istanza. Infatti questo obiettivo non è affatto alternativo a quello dei coronabond. Anzi la loro emissione lo avvicinerebbe, perché lo si potrebbe ottenere se la Bce garantisse l’acquisto comunque dei titoli emessi qualora essi non venissero assorbiti dal mercato. Ma intanto riuscire a mettere in campo concretamente i coronabond spezzando la resistenza del fronte rigorista sarebbe un passo decisivo in questa direzione.
Basterebbe? No, serve un controllo sui movimenti di capitale, una profonda riforma del prelievo fiscale che riduca la crescente divaricazione dei redditi, una patrimoniale, un vero piano europeo di investimenti in settori innovativi e ambientali, insomma un social-green - new-deal, che per funzionare deve garantire non solo lavoro ma che nessuno sia privo di reddito. E neppure soltanto questo. Ciò che questa pandemia ci insegna è la nostra fragilità e quella della tanto osannata globalizzazione capitalistica. La necessità di una modifica radicale del sistema economico-sociale che il capitalismo ha prodotto non è forse mai stata tanto evidente come oggi.
Dal canto suo, pur non essendo sufficiente, la Bce il suo ruolo lo svolge. Oltre agli acquisti dei titoli sul mercato secondario per ingenti quantità - superando di fatto la cosiddetta capital key che avrebbe imposto acquisti in proporzione alla quota capitale di ogni singolo stato membro, comprando più titoli italiani che tedeschi – la Bce ha assunto una decisione importante e che ci riguarda da vicino: quella di disarmare di fatto il potere delle agenzie di rating decidendo di accettare come garanzia collaterale dalle banche anche i titoli di Stato che venissero considerati al di sotto dei livelli di investimento, cioè i cosiddetti junk bonds, ovvero i “titoli spazzatura”. Un sollievo, viste le condizioni tristi del nostro rating.
La sentenza di Karslruhe
A complicare ulteriormente le cose è giunta la sentenza della Corte Costituzionale tedesca. Non si può che essere d’accordo con il giudizio scritto a chiare lettere dal Financial Times: la sentenza di Karlsruhe ha messo una bomba sotto l’ordinamento giuridico dell’Unione europea. Anche se non del tutto inaspettata, e infatti temuta, questa giunge in un momento nel quale la Ue si gioca la sua esistenza. Da un lato la sentenza afferma che il programma di acquisto di titoli di Stato sul mercato secondario da parte della Bce, relativo sia al primo che al secondo Quantitative Easing, non costituisce finanziamento degli Stati. Quindi rispetta il divieto del Trattato di Maastricht alla monetizzazione del debito. Col che la Corte non perde però l’occasione di ribadire l’assoluta insormontabilità di quel divieto. Dall’altro lato gli otto giudici di Karlsruhe mettono in discussione il comportamento della Bce che avrebbe violato il suo mandato scavalcando il principio di proporzionalità negli acquisti dei titoli di stato e nelle conseguenze provocate sulle politiche economiche di quegli stati, approdando ad una sorta di monetizzazione indiretta, assumendo così un ruolo di natura politica.
La sentenza non si applica al programma pandemico di acquisti (Pepp) recentemente varato (750 miliardi almeno fino al 31 dicembre 2020). Ma la miccia è accesa. Ed è corta, visto che la Bce dovrà entro tre mesi giustificare la presenza nel programma dell’azionista di maggioranza, cioè la Bundesbank. Non solo, ma i membri dell’Alta corte hanno invitato perentoriamente il governo e il Bundestag a pronunciarsi sulla questione del Quantitative Easing. In effetti l’acquisto di titoli di Stato non proporzionati alla quota capitale dei paesi membri era uno dei punti qualitativamente più significativi dell’intervento della Bce.
Una parte rilevante, 29,6 dei 38,5 miliardi di titoli raccolti sul mercato sono stati infatti destinati ai titoli di Stato e tra questi 10,9 miliardi sono stati impiegati per i Buoni del tesoro pluriennali italiani. Pur tenendo conto dei reinvestimenti effettuati per compensare le obbligazioni che già la Bce possedeva e che erano venute in scadenza, è certamente vero che per il secondo mese consecutivo presso l’istituto centrale è stato allocato un quantitativo di titoli di Stato italiani doppio rispetto alle nostre quote di capitale. Anche i titoli francesi e spagnoli hanno beneficiato della sospensione della regola della capital key, ma i titoli italiani hanno fatto la parte del leone aggiudicandosi un terzo dell’intero programma relativo ai titoli di Stato. Mentre l’Eurotower ha comprato ‘appena’ 600 milioni dei 7 miliardi di Bund previsti.
Naturalmente ciò che dovrebbe risultare perfettamente logico e cioè che i paesi più in difficoltà ricevano maggiore sostegno in virtù di una semplice e solo parziale applicazione del principio di solidarietà, viene considerato insopportabile dalla parte più retriva delle classi dirigenti tedesche. E, come sappiamo, non solo da queste ultime. Prima della sentenza in diversi si chiedevano se il programma di acquisti della Bce può andare avanti anche senza la Bundesbank. Teoricamente e tecnicamente sì. Praticamente mi pare davvero improbabile. Le altre 18 banche centrali potrebbero turare la falla e portare avanti i piani di acquisto previsti. Ma a pochi giorni dalla nuova riunione dei vertici europei che dovrebbe sciogliere il problema delle modalità di finanziamento e di erogazione, se aiuti o prestiti, del Recovery Fund, la miccia diventa cortissima. E’ impossibile pensare che la decisione di Karlsruhe sia come un elefante che se ne sta pacifico nel corridoio. Inevitabilmente vorrà occupare un ingombrante posto d’onore.
Tanto più che la decisione dei togati non si limita a condizionare in senso regressivo le scelte del governo tedesco, ringalluzzendo sciovinismi e sovranismi di ogni sorta, ma apre un contrasto palese con la Corte di Giustizia europea che aveva dato il proprio placet al piano di acquisti nel dicembre del 2018, sostenendo che questo “non eccede e non travalica il mandato della Bce e non viola il divieto di finanziamento monetario”. Questo è probabilmente il punto di maggiore rilievo della sentenza della Corte tedesca, perché riporta in auge uno scontro mai sopito, soprattutto in ambiente tedesco, fra una concezione dell’Unione europea come capace di creare un nuovo ordine giuridico sovranazionale ed un’altra per cui l’Europa dovrebbe essere e restare un’organizzazione interstatale. Se dunque non si può dire che la concezione che emerge dalla sentenza di Karslruhe sia semplicemente sovranista, è vero che essa è stata ed è immediatamente utilizzata dalle posizioni nazionaliste più regressive. Ne sono prova le immediate dichiarazioni su Twitter del viceministro della giustizia polacca, Sebastian Kameta, ispirate da una brutale chiarezza: “Gli Stati membri sono i padroni dei Trattati europei. Questo è ciò che ha detto la Corte costituzionale tedesca. La Germania difende la sua sovranità. L’Unione può dire soltanto quello che noi, Stati membri, le permettiamo di dire.”1 Il punto debole è che il contrasto si realizza fra una istituzione di uno Stato dotato di Costituzione e un organismo istituito da un Trattato. Era ovvio che prima poi la questione esplodesse, mettendo a nudo l’intima fragilità della costruzione a-costituzionale dell’Unione europea e la natura intergovernativa del suo sistema di governance. I nodi vengono al pettine nei momenti di maggiore difficoltà, quando vi sarebbe bisogno del massimo aiuto reciproco per affrontare una crisi sanitaria ed economica che ha il volto di una terribile recessione.
Dalla crisi costruire una svolta
Il cammino verso una vera e propria, stabilizzata e organizzata, mutualizzazione del debito è ancora lungo, pieno di incertezze e di trabocchetti. Ma a maggiore ragione bisogna percorrerlo con determinazione. Diversi tabù cominciano a cadere. Persino la modifica dei Trattati non appare più un’ipotesi fantascientifica, anche perché la dura realtà dimostra quanto essi fossero inadatti a fronteggiare situazioni che, pur non essendo affatto imprevedibili, certamente fuoriescono da un tracciato di tranquilla normalità. Quando un insieme di norme non riesce a fare questo, fallisce il suo compito più importante che è quello di affrontare e risolvere la straordinarietà. Quindi va cambiato e in modo radicale. Molti sostengono che i Trattati siano di fatto immutabili e che dunque si farebbe prima a pensare a un’uscita dell’Italia dall’Eurozona o addirittura dall’intera Ue. Ma una simile soluzione getterebbe immediatamente il nostro paese nelle mani della speculazione internazionale e dei giochi delle maggiori potenze a livello mondiale. Il prezzo maggiore sarebbe inevitabilmente pagato dal mondo del lavoro e del non lavoro e in termini assai pesanti e gravi. Se c’è una cosa in qualche modo positiva in questo mare di negatività è che la questione non solo della sospensione del Patto di stabilità, già attuata seppure in maniera temporanea, ma anche una eventuale revisione dei Trattati non è più un tabù. Anche se farlo concretamente richiede ancora molti sforzi e un cammino non breve. Da compiere insieme a quello di una difficile e complessa rinascita economica basata sul rigetto delle formule del passato.
Anche chi non riesce a liberarsi di un pensiero mainstream, malgrado gli ottimismi di maniera, trova veramente difficile immaginare una ripresa a “V” dell’economia, laddove toccato il fondo immediatamente si risale. E’ più probabile una ripresa a “U” dove ci si riprende dopo un consistente periodo di stagnazione. Mentre non è evitato, specialmente nel caso italiano viste le carenze strutturali del nostro sistema, il pericolo di una situazione a “L”, dove la stagnazione può prolungarsi per un tempo indefinito.
In ogni caso non si può accettare che, passato il pericolo pandemico, tutto torni come prima. La fretta di riaprire tutto e subito cui assistiamo in questi giorni (con veri e propri deliri del tipo “i morti di Bergamo ci chiedono di ripartire subito”) è la manifestazione più evidente di questa intenzione. Se la pandemia si è sviluppata in modo così rapido e grave anche a causa del sistema economico, di consumo, di vita esistenti, la ripresa non può avvenire in altro modo che rimettendo in discussione questi ultimi. Senza pensare alla solita fallimentare politica dei due tempi che tanti disastri ha combinato nella sinistra politica, sindacale e sociale.
Quasi cinquant’anni fa sulle colonne de il manifesto Lucio Magri1 rifletteva sulle condizioni in cui ci si trovava dopo la famosa crisi petrolifera. Era il gennaio del 1974 e Magri, “provocatoriamente” come egli stesso scriveva, proponeva un
“modello di stagnazione alternativa” che avrebbe poi dovuto congiungersi senza soluzione di continuità a un “alternativo modello di sviluppo”. In sostanza anche il dirigente comunista si rendeva conto che da una simile crisi non si usciva come un centometrista dai blocchi di partenza, ma che era inevitabile un periodo più o meno lungo di “stanca” e che allo stesso tempo quel periodo stagnante poteva essere risolto interamente contro le masse popolari per la ricostituzione di un capitalismo ancora più aggressivo, oppure poteva servire per porre le basi di uno sviluppo alternativo. Per questo era necessario da subito pensare anche a un modello di stagnazione alternativa fondata sulla ridistribuzione del reddito (oggi diremmo un reddito di base generalizzato e incondizionato), sulla ricerca della massima occupazione possibile anche in settori a bassa produttività (e un vero social green deal offrirebbe occasione per tutti i tipi di lavoro), sul controllo delle scelte produttive (e qui si chiama in causa il ruolo imprenditoriale dello stato e una necessaria programmazione non dirigistica ma democratica e partecipata).
E’ su questi temi tutt’altro che semplici che una sinistra potrebbe ricostituirsi e ragionare, oltre che impegnarsi in una critica utile, se puntuale e precisa, ai Dpcm del governo Conte.
L’autore ringrazia Paola Giaculli per l’aiuto nel reperimento delle documentazioni europee e di lingua tedesca necessarie