Due crisi nello stesso decennio non le avevamo mai viste e ci costringono a rivedere vecchi modi di pensare. Il primo tsunami si manifestò nel 2008 e continuò a farsi sentire per più anni, addirittura fino al 2017 in Paesi come l’Italia. L’epicentro furono gli Stati Uniti, e l’emblema fu il fallimento della Lehman Brothers, a indicare che la crisi aveva trovato il suo punto di innesco nella finanza, quella più torbida in cui si fabbricano i prodotti più opachi. Le conseguenze, però, si propagarono all’intero sistema bancario e fu un disastro. Non solo in America, ma anche in Europa.
Su entrambe le coste dell’Atlantico i governi si trovarono a dover scegliere se lasciare fallire o salvare i propri istituti bancari: ovunque optarono per la seconda scelta, investendo somme enormi. A livello di Unione Europea i soldi impegnati dai governi per il salvataggio delle proprie banche fu di circa mille miliardi di euro. Ma quei soldi i governi europei non li avevano e se li procurarono a debito. E non è tutto. La crisi delle banche si era ripercossa, a catena, sull’intero tessuto economico provocando una massiccia disoccupazione e una riduzione importante del gettito fiscale che i governi cercarono di fronteggiare facendo altro debito ancora. La conclusione fu che se nel 2007 il debito dei Paesi dell’Unione Europea ammontava a 6.337 miliardi di euro, pari al 58% del Pil, nel 2014 lo troviamo a 10.025 miliardi di euro, l’87% del Pil.
Il mondo stava ancora cercando di riprendersi dalla crisi del 2008, quando è stato investito da un altro uragano peggiore del precedente. È quello scatenato dalla pandemia di Covid-19, in cui siamo ancora immersi. Per frenare i contagi, ovunque si sono imposti lockdown che hanno rallentato l’intero sistema economico, addirittura paralizzando alcuni comparti, primi fra tutti il turismo e la ristorazione. Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro, nel secondo trimestre 2020 le ore lavorate a livello mondiale si sono contratte del 17,3% rispetto al quarto trimestre del 2019, qualcosa corrispondente al lavoro di quasi mezzo miliardo di lavoratori a tempo pieno.
I Paesi più attrezzati hanno subito attivato tutti i mezzi possibili per sostenere famiglie e imprese. In Italia la spesa supplementare a fini sociali ed economici, per il 2020, è stata di oltre 100 miliardi di euro, mentre in Germania è stata pari a 285 miliardi. Su cifre analoghe si sono attestati Gran Bretagna, Francia, e altri Paesi europei mentre gli Stati Uniti hanno stanziato oltre 2.500 miliardi di dollari per misure d’emergenza. Lo stesso Giappone, che pure ha un prodotto interno lordo inferiore di un quarto di quello statunitense, ha stanziato attorno ai 2.000 miliardi di dollari per misure di sostegno all’economia. Complessivamente l’Ocse stima che a causa del Covid, nel 2020 i Paesi più industrializzati avranno un aggravio di spesa attorno ai 5.700 miliardi di dollari. Tutti in deficit, che faranno lievitare il loro debito complessivo da 47mila a 52.700 miliardi di dollari. Ma gli effetti non saranno gli stessi per tutti.
I meno penalizzati saranno i giapponesi, che pure hanno il debito pubblico più alto del mondo pari al 266% del Pil. Il Giappone è abbastanza tranquillo perché ha al proprio fianco una Banca centrale che per statuto deve collaborare in maniera stretta col governo e deve assisterlo nelle sue esigenze finanziarie se necessario concedendogli anche prestiti tramite emissione di nuova moneta. A oggi il 43% del debito pubblico giapponese figura come debito verso la Banca del Giappone e ha la caratteristica di poter essere definito un debito non debito perché pur esistendo da un punto di vista contabile, non sorte nessun effetto da un punto di vista pratico. Infatti né deve essere restituito, né esige pagamento di interessi.
Fra i Paesi più sviluppati, il Giappone è il Paese che gode di maggior collaborazione con la Banca centrale. Segue il Canada dove il governo può ottenere prestiti direttamente dalla propria Banca di emissione, ma per importi limitati che devono comunque essere rimborsati in tempi prestabiliti. Anche in Gran Bretagna è prevista la possibilità di piccoli prestiti da parte della Banca d’Inghilterra, ma come pratica eccezionale. Quanto agli altri Paesi, fra cui Stati Uniti e Unione Europea, le Banche centrali hanno addirittura il divieto di prestare direttamente ai propri governi. Esiti di un’epoca in cui la priorità era il contenimento dell’inflazione lasciando ai governi una sola strada per finanziare i propri deficit: il ricorso al mercato che però pretende indietro ogni singolo centesimo di capitale con un sovrappiù d’interessi.
Eppure se analizziamo la situazione patrimoniale di tutte le Banche centrali, troviamo che le loro casseforti sono piene di titoli di debito pubblico. La spiegazione è che li posseggono non in virtù di rapporti diretti con i propri governi, ma per averli acquistati da altri soggetti che, dopo averli comprati, desideravano disfarsene per rientrare in possesso del proprio denaro prima della loro scadenza. Si tratta del così detto mercato secondario su cui tutte le Banche centrali operano ampiamente. Questo canale ha permesso alla Fed, la Banca centrale statunitense, di accumulare il 25% del debito pubblico americano. Per la stessa via anche la Banca centrale europea ha incamerato titoli di debito pubblico dei Paesi dell’Eurozona per un valore corrispondente a quasi 3mila miliardi di euro, il 30% dell’intero debito pubblico dei Paesi che utilizzano l’euro.
La Bce porta avanti il proprio programma di acquisti dal 2014 col triplice scopo di stimolare la ripresa economica tramite l’immissione di nuova liquidità nel sistema finanziario, di contrastare la speculazione sui titoli dei Paesi più deboli e di mantenere bassi gli interessi sui titoli di debito pubblico di tutta l’Eurozona. Obiettivi andati a segno, almeno per gli ultimi due, a giudicare dalla riduzione della spesa per interessi registrata da tutti Paesi dell’Eurozona. Ma ora il timore è per l’ammontare complessivo del debito che il Covid ha fatto tornare a crescere. La politica di acquisti da parte della Bce non può durare in eterno e c’è il rischio che quando cesserà riemerga il sopravvento dei mercati che potrebbero tornare a mettere sotto assedio i Paesi più indebitati, come fecero nel 2011, e imporre politiche di austerità che tanta sofferenza hanno provocato negli strati più deboli della popolazione.
Quanto più alto il debito da restituire, tanto più alto il rischio di ricatto e quindi di sofferenze da dover vivere. Per questo è importante sostenere l’ipotesi avanzata e illustrata su queste pagine da Leonardo Becchetti e lanciata con forza dal presidente del Parlamento europeo David Sassoli che punta a imboccare la strada della 'neutralizzazione' del debito cominciando a seppellire per sempre nei conti economici della Bce il debito supplementare contratto forzatamente nel 2020 per fronteggiare la crisi della pandemia. Sarebbe la miglior azione che potremmo fare per i nostri figli e per noi stessi, accanto all’avvio di una seria transizione ecologica, in vista di un futuro più roseo.