Le privatizzazioni italiane sono segnate da un episodio che avrebbe potuto cambiarne, in meglio, il corso. Si tratta del sabotaggio del “piano Guarino” con il quale vennero lanciate le privatizzazioni l’11 luglio 1992.
Giuseppe Guarino, ministro delle Partecipazioni statali del governo Amato, era stato giovanissimo professore universitario di diritto pubblico, legato al cenacolo de Il Mondo e favorevole alla nazionalizzazione dell’energia elettrica, poi consulente dei principali enti pubblici tra i quali Eni, nonché collaboratore della Banca d’Italia grazie allo strettissimo rapporto con Guido Carli. Era stato poi eletto nel 1987 deputato nelle file della Dc.
Guarino considerava le privatizzazioni “nell’ordine delle cose”, dato l’obiettivo di realizzare il Mercato unico europeo entro il 1992, ma riteneva indispensabile rafforzare prima un sistema produttivo e finanziario italiano indebolito dal peso delle finanze pubbliche, nonché dalle peculiari caratteristiche geografiche del territorio italiano.
Il risultato di questa impostazione guariniana fu che il famoso Decreto dell’11 luglio prevedeva la creazione di “due società per azioni”, presto ribattezzate “superholdings”, una con in pancia Iri e le principali banche, l’altra energetica con in pancia Eni ed Enel. Queste holding avrebbero emesso obbligazioni convertibili in misura non inferiore al 20%, e non superiore al 45% “del valore delle suddette società”. L’obiettivo era creare “gruppi finanziari con radicamento nazionale” e garantire la “fertilizzazione” reciproca tra società di importanza sistemica.
IL DISCORSO DEL BRITANNIA – Così Mario Draghi parlava di privatizzazioni nel 1992
Nella seconda metà di luglio le “superholdings” subirono un assalto alla diligenza che portò il primo ministro Giuliano Amato a cancellarle in sede di conversione in legge l’8 agosto. “Quell’impostazione – disse poi Amato – aveva contro il mercato e i manager. Le banche non se ne fidavano, mentre i privati si erano convinti che il sistema non avrebbe funzionato”.
Tutti gli enti pubblici vennero così trasformati in Spa con il Tesoro azionista unico. Le privatizzazioni vennero affidate ad un “piano di riordino” del Tesoro che prevedeva risanamento finanziario, dismissioni e vendita a pezzi. Pur avendo duramente osteggiato il “piano Guarino” merito di Franco Bernabé, primo amministratore delegato di Eni Spa, fu quello di essere almeno riuscito ad evitare lo spezzatino di Eni, preservandone la natura conglomerata nel settore degli idrocarburi, dell’ingegneristica e della chimica.
Guarino si batté fino alla sua decadenza da ministro delle Partecipazione statali nell’aprile 1993 (il ministero venne poi abolito tramite referendum) per un programma di privatizzazioni che desse vita a grandi gruppi finanziari e imprenditoriali sul modello giapponese o sudcoreano, senza lasciare le singole aziende in mano a privati italiani senza capitali né capacità imprenditoriali. Voleva evitare la creazione di un “sub-sistema industriale privato”, mentre serviva creare campioni europei, dunque globali, che resistessero alla competizione fra “sistemi Paese”: “Un obiettivo strategico potrebbe pertanto farsi consistere nel dar vita a due o tre gruppi, che per loro dimensione e capacità finanziaria siano in grado di reggere con successo all’urto della concorrenza globale”.
È oggi chiaro che lo spezzatino e la scomparsa della politica industriale, in nome di una sbandierata (quanto teorica) “concorrenza”, ben incarnate dall’era Draghi come direttore generale del Tesoro (1991-2001), ha fallito sulle questioni chiave. Sul fronte energetico, le società privatizzate (con lo Stato azionista di controllo, ma passivo, in Eni e Enel) hanno lesinato gli investimenti nella decarbonizzazione e non sono state in grado di garantire la sicurezza energetica degli italiani diversificando adeguatamente le importazioni. In generale le società privatizzate hanno risparmiato sugli investimenti in sicurezza (vedi ponte Morandi) e in nuove tecnologie, lasciando l’Italia ai margini in settori strategici come telecomunicazioni e ingegneria elettromeccanica.
Le nuove società privatizzate, specie quando gestiscono servizi di interesse generale, si sono trasformate in macchine per remunerare azionisti italiani e stranieri, senza riguardo per i prezzi (gli aumenti delle tariffe sono stati costantemente più alti dell’inflazione), per la necessità di investire nelle aree più depresse del Paese, per la necessità di promuovere buona occupazione e partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese.
Il piano Guarino non avrebbe bloccato le privatizzazioni, ma consentito all’Italia di rafforzare le spalle finanziare e tecnologiche della nostra industria con gruppi sistemici in grado di “fertilizzarsi” reciprocamente e competere a livello internazionale. A 30 anni dal fallimento del suo piano, l’auspicio è che se ne riprenda, se non la lettera, quantomeno lo spirito.