Alla vigilia di uno degli autunni più complicati della nostra storia, abbiamo il dovere di ricercare indietro nel tempo i motivi strutturali dei limiti della nostra economia, consapevoli che il coronavirus li ha improvvisamente e drammaticamente accelerati, ma non li ha del tutto determinati. Il paragone con il Dopoguerra è il più gettonato nel dibattito politico e mediatico, ma quasi mai vengono seriamente considerate le ragioni che hanno permesso all’Italia di entrare nel secondo conflitto mondiale da piccola nazione, uscirne sconfitta e umiliata, per poi trasformarsi in una delle prime potenze economiche mondiali. Ebbene il trentennio d’oro dell’Italia (1945-1975), quello culminato con il boom economico, si è realizzato perché il sud è stato parte integrante delle strategie di sviluppo della nazione, con la sua manodopera emigrata che ha reso possibile il balzo industriale del nord, con la costruzione di infrastrutture che hanno fatto uscire dal medioevo intere comunità isolate, con l’allargamento della sua base industriale e agricola, con la piena partecipazione alla società dei consumi di una parte consistente della sua popolazione, con la scolarizzazione di massa che ha permesso a diverse generazioni di cambiare radicalmente il mestiere dei padri. Tra il 1951 e il 1973 il Pil meridionale ha registrato un incremento superiore a tutto quello verificatosi dal 1861 in poi. Nel 1951 il Pil pro- capite nel meridione era il 52,9 rispetto a quello del centro-nord, cioè la metà. Nel 1973 arrivò al 60,5 (quasi otto punti in più rispetto al 1951) un risultato mai più raggiunto negli anni successivi. Il Sud cresceva contro ogni pretesa di inconciliabilità tra la mentalità dei meridionali e lo sviluppo produttivo.
C’è stata, all’epoca, una felice interconnessione tra la nazione e la sua parte più arretrata, tra Nord e Sud. Investendo sulle sue parti meno sviluppate l’Italia si è trasformata in una grande potenza economica. Perché non si diventa (e non si resta) una grande nazione industriale se si sviluppano solo parti di essa.
Dopo la seconda metà degli anni Settanta del Novecento, invece, si è scelta un’altra strada rispetto a quella del trentennio precedente: non allargare lo sviluppo industriale e produttivo alle parti che ne erano prive, ma concentrarlo solo in una parte. È stata questa, dunque, una scelta precisa e non una necessità, una decisione non una costrizione, un orientamento politico ed economico non una fatalità. E quando poi si è scelto di affidare alle Regioni il compito di ridurre le distanze tra nord e sud, esse si sono accentuate, perché nei territori arretrati l’autogoverno funziona solo con un ruolo attivo dello Stato centrale, altrimenti è una presa in giro.
Eppure questa semplice lezione storica non entra nei ragionamenti politici, non diventa verità storica ed economica, memoria attiva delle classi dirigenti nazionali.
È indubbio che la ricchezza di una nazione dovrebbe passare attraverso il benessere di tutte le sue parti; solo in questo caso la ricchezza diventa generale, stabile e duratura. Se, invece, cresce in una sola parte, la ricchezza non è né generale, né stabile, né duratura. Quando lo Stato italiano e la sua classe dirigente si sono posti seriamente il problema di allargare il perimetro geografico della crescita, dei risultati sono raggiunti; il sud si è mosso dalla sua staticità e ha dimostrato di poter ottenere performance di crescita anche superiori alle aree più sviluppate. E l’Italia intera è stata proiettata tra le prime nazioni al mondo. Nell’arretratezza di un territorio non c’è niente di ineluttabile e nessun dato negativo di partenza è impossibile da superare. Non si diventa una grande potenza economica (o non si resta tale nel tempo) se ci si comporta come una “nazione di due terzi”.
La più grande incongruenza economica del nostro Paese è che una parte di esso (pari a 20 milioni di abitanti, cioè il 34% dell’intero territorio) vive in condizioni sociali, economiche e civili così dissimili da farla sembrare quasi una nazione a parte. La miopia delle classi dirigenti italiane (in gran parte settentrionali negli ultimi decenni) è consistito essenzialmente nell’illusione e nella presunzione di poter fare a meno di un terzo della nazione. Senza minimamente riflettere sul fatto che se quel territorio arretrato recuperasse la via della crescita e si avvicinasse alle prestazioni delle altre due parti, l’Italia tornerebbe tra le nazioni leader dell’economia mondiale, in maniera ancora più solida del recente passato. È l’orizzonte territoriale ristretto in cui si è mossa la politica nazionale (dagli anni Ottanta in poi del Novecento) il vero responsabile di ciò che siamo oggi e delle nostre attuali difficoltà. Non tutte, dunque, riconducibili solo al coronavirus.
È possibile una rivoluzione copernicana nel dibattito economico e politico? Una nuova narrazione, un altro racconto sull’Italia e sul sud? È possibile, certo, ma per avviarlo bisognerebbe buttarsi alle spalle gli anni dell’ottuso rancore settentrionale e del pregiudizio antimeridionale. Bisognerebbe rendere obbligatorio lo studio delle conseguenze economiche dei pregiudizi territoriali e antropologici.
L’Italia è in difficoltà rispetto ad altre nazioni perché sta rinunciando da troppo tempo a un secondo motore della sua economia. Con due motori accesi il nostro Paese andrebbe molto più veloce e si metterebbe dietro diverse nazioni che ora la precedono nel calcolo della ricchezza prodotta. Ed è provato che quando si riaccende il motore economico meridionale, a beneficiarne è per di più l’apparato produttivo settentrionale.
Ma imporre una nuova narrazione non sarà facile, perché oggi la sinistra italiana (così come l’insieme del fronte progressista) non ritiene che le disparità territoriali siano un segnale di ingiustizia sociale; nella migliore delle ipotesi le considera un dato immodificabile della storia, se non addirittura (scavando nel profondo) un dato antropologico. Poche sono le eccezioni, a partire dal ministro Provenzano. Ed è probabile che la crisi spingerà di nuovo alcune regioni del Nord (comprese quelle a guida Pd) a riaprire il capitolo dell’autonomia differenziata. L’ossessione del Pd, al contrario, dovrebbe essere questa: come utilizzare il sud per arricchire l’Italia? Così come fece Kohl con la Germania Est dopo la riunificazione. Senza i massicci investimenti nella sua parte più arretrata, la Germania non sarebbe oggi la prima nazione in Europa.
E invece in quasi tutte le regioni meridionali il Pd si fa rappresentare dalla peggiore continuità con il passato clientelare, trasformista e familista. La Campania ne è l’esempio più clamoroso. Resta un limite strutturale delle strategie del Pd l’alleanza con le vecchie classi dirigenti meridionali. Così, per vincere in qualche regione perde la grande opportunità di rappresentare gli interessi e le speranze di una nazione senza pregiudizi territoriali.