“Subito dopo la laurea, entrai nella direzione programmazione di quella che allora si chiamava Sip. Dopo neanche due anni quasi per caso riempii l’application per entrare nella Business School di Harvard, e non senza fatica alla fine ce l’ho fatta. Mentre studiavo nel Massachusetts mi convincevo sempre di più che dopo, armato di master, sarei entrato in qualche branca dell’amministrazione pubblica. Perché ero convinto già allora che il settore pubblico, se efficiente e forte, rappresenta l’anima di un Paese, lo qualifica nel mondo, rende possibile un vero cammino di sviluppo e crescita”.
Così si racconta Dario Scannapieco, recentemente nominato da Mario Draghi amministratore delegato di Cassa Depositi e Prestiti, la Società per Azioni detenuta per l’82,77% dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, che gestisce 275 miliardi di risparmi dei cittadini.
Un vero Draghi boy, la cui nomina completa la task force di fedelissimi (il ministro dell’economia Daniele Franco, i “tecnici” Colao, Cingolani, Giovannini, l’Ad di Ferrovie dello Stato Luigi Ferraris), attraverso i quali il Presidente del Consiglio vuole blindare la gestione dei 209 miliardi del Recovery Plan (lasciando al “Recovery Clan” dei partiti le briciole del “Trickle-down”).
Ma sentiamo di nuovo il nostro: “Scrissi al ministro del Tesoro di allora che era Ciampi, al direttore generale Draghi, alla Banca d’Italia, al premier Prodi, al sottosegretario Micheli e via dicendo. A tutti esplicitavo il mio desiderio di venire a mettere a disposizione del mio Paese le competenze che stavo maturando”.
Finché, come nelle più belle fiabe, nei giorni di Natale del 1996, Draghi lo chiamò e, nel luglio successivo, a soli trent’anni, mise la sua indubbia preparazione e la sua grande passione al servizio dell’interesse generale.
Come? Apprendiamolo ancora dalle sue parole: “Lavoravamo come matti, i nostri amici erano diventate le guardie che facevano il giro la notte per il ministero, ho ritrovato dei file datati 25 dicembre. Ma è stata un’esperienza entusiasmante, andavo in ufficio felice. Facemmo privatizzazioni a catena”.
Ora è tutto più chiaro. Già perché Scannapieco, che non vedeva l’ora di dedicarsi allo Stato, è stato uno dei protagonisti della demolizione del ruolo dello Stato nell’economia e nella società.
Ha direttamente partecipato alla privatizzazione di Telecom, di Enel, di Autostrade, dell’Ente Tabacchi, del Poligrafico; ha seguito la collocazione in Borsa di Finmeccanica, ha dato il via alla cartolarizzazione degli immobili pubblici, fino all’ultimo dossier riguardante Alitalia.
Una gioiosa cavalcata sotto cinque ministri di diverso colore e unica direzione: Ciampi, Amato, Tremonti (che lo nomina direttore generale di Finanza e Privatizzazioni), Siniscalco e Padoa Schioppa, prima di essere indirizzato nel 2007 alla Bei (Banca europea degli investimenti).
Il tutto abbondantemente rivendicato con queste parole: “Si è sfruttata l’occasione offerta dalla necessità ed urgenza di rispettare gli stringenti vincoli esterni, imposti dalla partecipazione all’Unione Monetaria Europea, per avviare iniziative volte alla ridefinizione del ruolo dello Stato ed alla riforma, in senso maggiormente concorrenziale, dei mercati”.
A che serve Scannapieco in Cdp? A completare il riassetto liberista del Paese, secondo i chiari dettami incisi nel PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) approvato dal Governo Draghi, che vede nella concorrenza e nel mercato i due pilastri per la ripresa dell’economia, approfondendo, dentro un telaio ancor più autoritario, la precarizzazione del lavoro, la privatizzazione dei servizi pubblici e la mercificazione dei beni comuni.
Scannapieco metterà sul piatto la leva finanziaria di Cassa Depositi e Prestiti, forte dei 275 miliardi derivanti dai risparmi di oltre 20 milioni di persone.
Dentro questo fosco quadro, diventa sempre più urgente, dentro le mobilitazioni che andranno messe in campo per contrastare il PNRR, mettere al centro la campagna per la socializzazione di Cassa Depositi e Prestiti, eliminandone qualsiasi gestione privatistica e mettendone i fondi a disposizione per un altro modello di società, socialmente ed ecologicamente orientata, guidata dalla cura collettiva e non dal profitto individuale.
Si tratta semplicemente di riprendersi quello che ci appartiene.