Il 25 aprile è passato, portandosi via tutte le polemiche che lo hanno accompagnato e che, più degli altri anni, hanno scandito le settimane precedenti. Il 25 aprile è stato celebrato da chi, da sempre, lo ritiene una ricorrenza fondamentale per la nostra storia di conquista della democrazia. Quella che non passa, invece, è la sensazione, o meglio la certezza, che il fascismo sia purtroppo ancora lontano dalla sua conclusione. Abbiamo abbattuto, per fortuna, quel regime insopportabile che si è macchiato di sangue e ferocia, abbiamo demolito quel ventennio di infame violenza nel quale l’Italia si fece trascinare da un nugolo di sbandati ed esaltati ai quali un re codardo aprì la porta. Quello che non abbiamo demolito è invece il virus culturale di quella destra di regime, che ha resistito, utilizzando la sola capacità in suo possesso: la vigliaccheria. Sfruttando la pacificazione (giusta e indiscutibile in linea di principio) voluta dalle forze protagoniste della Liberazione, i fascisti si sono nascosti nel tessuto democratico, fingendosi quieti, ma nel frattempo lavorando negli scantinati della democrazia per tramare, per continuare a nutrire quella ideologia sporca che, ancora oggi, vomita simboli, gesti e dogmi inaccettabili.
Il terrorismo nero non è stato pura eversione, ma un disegno sistematico a cui hanno partecipato, in qualche maniera, anche quei personaggi che fingevano di accettare le regole della democrazia. Se il Partito Comunista e i sindacati di sinistra hanno combattuto duramente le Brigate Rosse e il terrorismo di ispirazione marxista, lo stesso non si può dire dell’MSI. Il partito erede del fascismo, la cui fiamma campeggia ancora nel simbolo di Fratelli d’Italia, nei confronti dei gruppuscoli che tramavano contro la democrazia e nei confronti delle forze poi protagoniste di attentati e stragi, ebbe un atteggiamento ambiguo o addirittura complice. Ci sono stati dirigenti dell’MSI condannati per attività eversive, c’è stato anche chi, come il leader Almirante, che tanti oggi osannano con una retorica insopportabile, si avvalse dell’immunità parlamentare per sfuggire all’accusa di favoreggiamento per un attentato in cui morirono tre carabinieri.
La verità è che la storia del fascismo, anche dentro la Repubblica, è popolata da ombre oscure e da personaggi inquietanti, come Junio Valerio Borghese, ex comandante della X Mas e presidente dell’MSI per un triennio: un fascista convinto, protagonista della funesta strategia della tensione e organizzatore di un tentato golpe per rovesciare il potere democratico nel 1970. Insomma, la storia dell’Italia Repubblicana, che nasce dalla sconfitta del fascismo, dal fascismo ha dovuto costantemente difendersi. Ecco perché oggi è necessario non abbassare la guardia davanti a chi sta colpevolmente cercando di negare la verità per sostituirla con visioni false e strumentali, con l’obiettivo di riscrivere la storia sovvertendo l’ordine delle responsabilità o alterando la portata dei fatti.
Non è soltanto la polemica (peraltro non nuova) sul 25 aprile, ma è anche l’escalation di dichiarazioni gravi sulla storia della Resistenza come quelle di chi dovrebbe rappresentare la seconda carica dello Stato e che, in realtà, mostra di essere più simile a una macchietta. Solo che a differenza della macchietta, buona per tutte le stagioni destrorse, da Fini a Berlusconi fino a Giorgia Meloni, Ignazio La Russa è un senatore, il presidente del Senato, il supplente del Presidente della Repubblica. Una carica che andrebbe ricoperta con rispetto per le istituzioni e per la Costituzione che l’ha partorita, e non invece con il piglio sbilenco dell’esponente di partito, dell’erede nostalgico di quel fascismo di cui nel privato venera i simboli, del personaggio da disputa social, del grottesco gaffeur che, dopo averla sparata grossa, si appella al trito ritornello della cattiva interpretazione altrui. Il problema, però, è che La Russa non è il solo. Perché in quel di Fratelli d’Italia sono tanti a rimanere incollati al passato.
Non ce la fanno ad andare oltre, a pensare al futuro, a vivere nella contemporaneità e soprattutto dentro quella democrazia che permette a una donna come Giorgia Meloni di governare (cosa impossibile durante quel fascismo che lei e il suo partito non riescono a rinnegare apertamente). Abbiamo sentito tante volte la sua irritazione quando qualcuno le chiedeva di prendere le distanze dal fascismo, di dichiararsi antifascista. Abbiamo sentito tante volte personaggi di Fratelli d’Italia, l’ultima è stata Elena Donazzan, assessora regionale all’Istruzione (sic!) in Veneto, lasciarsi andare a tragicomici revisionismi storici. Dall’antifascismo che, secondo la Donazzan, avrebbe prodotto il terrorismo rosso (l’istruzione in Veneto, in questo momento, ha seri ed evidenti problemi), alle parole pesanti di La Russa su via Rasella, i partigiani e i nazisti/musicanti: c’è un filo conduttore tra queste uscite e la concezione della storia da parte della destra italiana. D’altra parte, come non ricordare, anche ai tempi di Alleanza Nazionale, le proposte di legge sull’equiparazione dei partigiani e dei traditori (e complici dei nazisti) della RSI.
La destra italiana, o meglio una parte di essa, non riesce a uscire dal suo passato tragicamente ingombrante. Non riesce a evolvere nel pensiero e nelle parole (“la sostituzione etnica” è un concetto agghiacciante per chi ancora non prende realmente le distanze da un regime che applicò le leggi razziali) e nemmeno nei simboli (l’affezione alla fiamma tricolore è avvilente). Ma neanche nella visione politica, che ha sempre bisogno di individuare un “diverso”, un nemico, qualcuno a cui attribuire la colpa, sia essa di natura economica o di insicurezza sociale o di tipo culturale. Non c’è un’idea nuova che riconosca il mondo attuale con i suoi nuovi schemi e con modelli che per fortuna sono diversi rispetto a quelli che, con ipocrisia, il fascismo imponeva. Dio, patria e famiglia sono concetti mutati insieme alla società, ma i fascisti oggi, sempre più simili a quelli delle note gag di Corrado Guzzanti, non lo riescono a comprendere, perché farlo significherebbe avere un’idea, costruire un pensiero che possa in qualche modo contribuire al progresso della società, al bene comune.
Molto più comodo usare slogan e creare divisioni, fingersi duri e integerrimi (solo quando fa comodo) e magari provare a negare la Storia, per fornirsi un nuovo scenario culturale, nel quale rendere normali quelli che sono pensieri e azioni anormali. Una strategia che vediamo poi ribadita nella società, in vari ambiti nei quali il 25 aprile e l’antifascismo in generale sono derisi, attaccati, messi in discussione e combattuti quasi rappresentassero un rischio per la storia e la libertà di questo Paese e non fossero, invece, l’origine della nostra vita democratica e di quella pacificazione che i padri costituenti, figli della Resistenza, vollero. Ecco perché, oggi, più che mai, ogni giorno bisogna rispondere a chi ritiene che questa sia una storia passata e ancor più a chi prova, con le parole o per legge, a riscriverla o a cancellarla.
Per tutte queste ragioni, passato il 25 aprile, bisogna continuare a vigilare, partecipare, smentire le ricostruzioni fantasiose e contrastare le leggi e le visioni politiche che, di quella tetra ideologia, ripropongono schemi, linguaggi, dogmi. Mai come oggi vale il principio per il quale la Resistenza va fatta ora e sempre, come ha ricordato molto bene nel suo discorso di spessore, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Perché se si cede al virus che infetta la memoria, si rischia di trovarsi in un Paese che vaga, smarrito, tra i viali turbolenti del presente e le incerte mulattiere del futuro. Con tutto ciò che ne deriverebbe. Per tutti noi.
Massimiliano Perna -ilmegafono.org