Il 2020 sarà un anno lunghissimo: e determinante. Le presidenziali che si terranno a novembre qui in America, hanno davvero il potere di caratterizzare il nuovo decennio appena iniziato. Donald Trump ha provocato squilibri globali difficilmente sanabili se dovesse vincere ancora. Sì, la Storia che verrà sarà in buona parte scritta da queste elezioni». Michael Walzer, 84 anni, professore emerito di Princeton, è l’influente filosofo della politica, autore di saggi come L’ intellettuale militante e Guerre giuste e ingiuste. A lungo condirettore della rivista politico-culturale Dissent con cui ancora collabora, è considerato una delle figure più influenti dei liberal Usa, colui che da oltre mezzo secolo sprona la sinistra americana a rimettersi in gioco.
Il nuovo decennio inizia all’insegna di un’incertezza da molti paragonata a quella degli anni Venti del Novecento che portò alla nascita delle dittature. È d’accordo?
«Ci sono senza dubbio similarità fra l’ epoca che viviamo e il periodo fra le due guerre. Certo, diversamente da allora, l’ incertezza attuale è in parte determinata dalla globalizzazione selvaggia. Ma fronteggiamo i grandi cambiamenti con la stessa inquietudine e il populismo di destra porta avanti un’ idea di nazionalismo in certi aspetti simile al fascismo sociale di quei tempi lontani. Non vedo nuove dittature all’ orizzonte, le tradizioni democratiche sono più forti e radicate di allora. Ma pure certe scelte fatte alle urne possono condurci verso le barbarie».
A novembre sarà la sua America a sceglierà in che direzione andare…
«Guardando i comizi di Donald Trump temo che il peggio possa accadere anche qui. Ma confido in una cultura democratica da noi forse più radicata che in una parte d’ Europa. Di sicuro le presidenziali 2020 sono la sfida politica più importante degli ultimi decenni. In gioco c’è l’ anima di un intero paese. I valori da traghettare nel futuro: compresi gli ideali della democrazia».
Cosa teme?
«Siamo davanti a uno sciovinismo radicale sempre più fanatico. Il rifiuto di riconoscere la dignità degli altri: negando in questo modo i principi che hanno fatto grande l’ America. Purtroppo Trump normalizza l’ odio un tweet dopo l’ altro, ripescando parole come deportazioni o bando che pensavamo di aver seppellito un secolo fa. Ci siamo già passati. Sono l’ anticamera del fascismo. Poi, per carità, qui la cultura della violenza è sempre esistita. Ma era marginale, sembrava sconfitta. Questo presidente l’ ha risvegliata e nobilitata. Sconfiggerlo è necessario e urgente. Ma non vedo nessuno in grado di farlo».
Il partito democratico lo ha appena messo in stato di accusa...
«L’impeachment è un rischio. Per renderlo efficace servirebbero una manciata di senatori repubblicani decenti, capaci di dare un segnale morale al paese. Ma non ce ne sono.
Tutti spaventati all’ idea di perdere potere. Messi a tacere dalle nomine di giudici supremi pronti a mettere in atto gli aspetti più radicali delle loro agende politiche. Disinteressati a drammi globali come il riscaldamento climatico. Dopo la morte di John McCain non hanno più voci c ritiche eminenti al loro interno. E invece un dissenso di destra oggi servirebbe più che mai».
E a sinistra cosa non funziona?
«I democratici avrebbero la forza per fermare Trump: non attraverso l‘impeachment, ma contrastandone le politiche con proposte precise. Invece sono disorganizzati, incapaci di prendere una direzione unitaria. Un difetto, d’altronde, della sinistra di molti altri paesi».
Le divisioni sono una vecchia malattia della sinistra.
«Il partito democratico americano ha una storia culturale diversa. Ma al trumpismo non riesce ad opporre una risposta coerente. Lacerato fra chi crede vicina una rivoluzione socialista, convinto di poter cavalcare lo scontento all’insegna del “tanto peggio, tanto meglio”.
Atteggiamento che nel secolo scorso spianò la strada al fascismo e ha di recente portato la sinistra britannica alla sconfitta. E chi invece pensa che all’ America serve solo normalità. E basterà levare Trump di mezzo per tornare al mondo di prima. Un errore anche quello. Certe pulsioni una volta tirate fuori vanno sanate. Insomma, non c’ è accordo nemmeno sul dove siamo».
Lei da che parte sta?
“Dissent”, la rivista per cui ho lavorato 30 anni, nacque nel 1954 per arginare la sinistra più radicale accecata dallo stalinismo e allo stesso tempo contrastare il maccartismo. Sono sempre stato di sinistra e oggi in qualche modo mi turba sentirmi vicino a posizioni centriste. Ma all’America serve una figura capace di parlare ai lavoratori bianchi colpiti dalla globalizzazione come alle minoranze oggetto della rabbia bianca. Una figura unificante. Non possiamo permetterci oltre di essere nemici di noi stessi».
Fra i candidati in corsa per la nomination democratica c’è una figura così?
«C’è, ma non corre per la nomination. Il mio candidato ideale sarebbe Sherrod Brown. deputato dell’ Ohio, un liberal capace di parlare alle diverse anime degli Stati Uniti. Una specie di Joe Biden giovane, insomma».
Cosa non va in Joe Biden? L’ombra dello scandalo ucraino?
«Non dovrei dirlo dall’alto dei miei anni. Ma è troppo confuso, impreciso. Mostra la sua età e nella politica americana non è mai stata una cosa buona. Fra quelli in gara mi convince la senatrice del Minnesota Amy Klobuchar. Ma non ha speranze. I dem sono polarizzati come il paese».
Che fare?
«Bisogna tornare a confrontarsi, riscoprire l’arte della mediazione politica. Tornare a leggere, studiare gli errori del passato per non ripeterli. Ho paura, ma non sono pessimista. Confido nei giovani.
Cresciuti in una società più aperta, multietnica, sono meno suscettibili alla politica d’odio di gente come Trump. Il loro attivismo ambientalista mi piace. Purtroppo non comprendono appieno la forza del voto come strumento democratico. Su questo dobbiamo lavorare, in America come in Europa.
Fargli capire che non possono farsi determinare il futuro dalla frustrazione dei vecchi. Scrivere la Storia, adesso, è compito loro».