Lo scatenarsi delle tifoserie sulla prescrizione e il chiasso mediatico che ne è seguito hanno messo in secondo piano il merito. Come scrive Azzariti su queste pagine, problemi reali rimangono senza risposta. Inoltre, sono oscurate questioni altrettanto – e forse più – importanti. Tra queste, le priorità da indicare per l’azione penale, a quanto si sa con atto di indirizzo parlamentare in forma di legge.
Va detto subito, senza giri di parole. È violato l’art. 112 della Costituzione, per cui “il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”. Nemmeno la più fantasiosa interpretazione evolutiva può far leggere la norma come se avesse in fine l’aggiunta “secondo le priorità decise da altri”. Inoltre, è impossibile conciliare la proposta di indirizzi etero-imposti con il concetto di autonomia e indipendenza della magistratura in generale, e di quella requirente cui il principio rimane applicabile. Questo sia per la natura di “ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” che l’art. 104 riconosce alla magistratura, ma anche perché autonomia e indipendenza sono presidio essenziale della eguaglianza di fronte alla legge dei cittadini.
Sappiamo bene che in Assemblea costituente la giustizia diede luogo e discussioni anche aspre, che non risparmiarono la figura del pubblico ministero. Non mancò chi propose che fosse in qualche modo assoggettato al potere politico. Leone riteneva dovesse essere “organo del potere esecutivo” (II sottocommissione, II sezione, 5 dicembre 1946). Nell’art. 12 della parte relativa al potere giudiziario della sua relazione alla sottocommissione prevedeva che “Il Ministro per la grazia e giustizia esercita la vigilanza e la direzione sugli organi del pubblico ministero”. Altri temevano che autonomia e indipendenza potessero dar luogo a degenerazioni autoreferenziali e corporative con il distacco della magistratura dalle istituzioni della nascente Repubblica. Ma alla fine prevalse la tesi favorevole all’autonomia e indipendenza, sia per la magistratura come ordine che per il singolo magistrato.
Il 7 aprile 2011 fu presentata dal governo Berlusconi (per la giustizia, Alfano) una proposta di legge costituzionale (AC 4275). Si riformava il Titolo IV della Costituzione in modo che lo stesso Presidente del consiglio non esitò a definire “epocale”. Una lunga relazione introduttiva presentava l’AC 4275 come un aggiornamento reso necessario dal tempo decorso e dai mutamenti sopravvenuti, tali da portare a capovolgere equilibri maturati nel 1948, e in sostanza a far vincere chi allora aveva perso. Uno dei punti era la figura del pubblico ministero. E qui conta ricordare che l’art. 13 della proposta così sostituiva l’art. 112 Cost. oggi vigente: “L’ufficio del pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale secondo i criteri stabiliti dalla legge”.
La cosa non ebbe seguito, perché nel novembre 2011 il governo cadde e a Palazzo Chigi arrivò Monti. Ma cogliamo la sovrapponibilità della formula berlusconiana con la proposta fin qui nota della Cartabia. Con la sola differenza che il duo Berlusconi-Alfano metteva in conto una legge costituzionale di modifica dell’art. 112, che invece la Cartabia non sembra ritenere necessaria. I “tecnici” Monti e Severino (giustizia) ebbero la saggezza di non riprendere la questione. I “tecnici” Draghi e Cartabia oggi forse ritengono di non poter fare lo stesso, per le pressioni europee. Ma evitino, almeno, una palese incostituzionalità.
Sappiamo che la riforma dell’art. 111 con il giusto processo ha indotto un ripensamento sul pubblico ministero, essendo difficile ricostruire la sua figura come “parte”, e tuttavia “imparziale”. Per alcuni, un ineludibile ossimoro. E sappiamo che anche in stati di sicura fede democratica ci sono esempi di pubblici ministeri – o figure equivalenti – che sono in vario modo legati alla politica. Ma nel nostro ordinamento gli artt. 112 e 104 rimangono fermi e imprescindibili per qualsivoglia operazione interpretativa.
Su prescrizione e dintorni si può intervenire in vario modo per trovare equilibri adeguati. Invece, la sottoposizione del pubblico ministero alla maggioranza pro tempore e/o al governo in carica è un radicale cambio di paradigma che non può essere temperato. Se è quel che si vuole, si modifichi la Costituzione che lo impedisce, e si dica in chiaro che è arrivato il tempo della giustizia politica.