La Riforma della giustizia per silenziare i magistrati

di Massimo Villone - Ilfattoquotidiano.it - 25/07/2025
iI referendum sulla giustizia sarà probabilmente l’unica occasione in cui il popolo italiano potrà parlare sul complesso delle riforme volute dalla destra.

Nel suo video celebrativo la presidente Meloni astutamente collega la riforma della giustizia appena votata in Senato al piano carceri, approvato in Consiglio dei ministri. Vuole mandare il messaggio di un progetto di governo che va al di là della mera vendetta contro una magistratura in generale indisponibile all’obbedienza acritica. Una frase merita attenzione. Meloni dice: “In passato si adeguavano i reati al numero dei posti disponibili nelle carceri. Noi riteniamo viceversa che uno Stato giusto debba adeguare la capienza delle carceri al numero di persone che devono scontare una pena”. Non è voce dal sen fuggita, esprime proprio un suo pensiero di fondo. Lo ritroviamo ad esempio in termini del tutto analoghi in una sua intervista del 5 febbraio 2024, che ci viene tramandata dalla memoria eterna della Rete. Che le carceri debbano essere adeguate al numero dei detenuti sembra un concetto ovvio, e persino giusto. Salvo che non si può prescindere dalla scelta su chi si manda in galera, e perché. La dottrina si affanna, in Italia e in genere negli Stati di democrazia liberale, sull’allarme sociale, la necessità, la proporzionalità, la razionalità. Concetti volti a definire l’ambito in cui il legislatore può ricorrere alla sanzione penale, che rimane in linea generale una ultima ratio. Non volta, per capirci, a mandare in galera mamme incinte, o innocui dissidenti.

Qui cogliamo un nesso con la riforma della giustizia, in cui va detto che il punto focale non è la separazione delle carriere. Un paio di dozzine di passaggi all’anno su circa novemila magistrati non meriterebbero certo una riforma “epocale” della Costituzione. La vera sostanza della riforma sta nella modifica dell’architettura di autogoverno che ha consentito alla magistratura – con tutti i difetti che non si devono negare – di sviluppare propri autonomi indirizzi culturali e di lettura dell’ordinamento giuridico. Sono fulcro della riforma i due Csm, l’Alta corte, il sorteggio. La funzione ultima del magistrato è quella di garantire e rendere effettivi i diritti di tutti, determinando il diritto applicabile, decidendo la singola controversia, o magari inviando gli atti alla Corte costituzionale. In una cosa è diverso da un qualunque funzionario amministrativo, che sembrerebbe parimenti soggetto alle norme applicabili. È chiamato a pensare con la sua testa, com’è ovvio, ma deve anche essere consapevole e tenere conto del pensiero di tutti gli altri magistrati. È parte di un pensare collettivo, che è poi il fondamento dell’“ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” voluto dalla Costituzione (art. 104).

Il messaggio che il governo manda con la riforma è che il magistrato per qualsiasi ragione scomodo non potrà aspettarsi di essere tutelato nelle sedi un tempo di effettivo autogoverno. Che si tratti di migranti, di inchieste sui potenti del Palazzo, o domani sui poveracci di cui alla legge sicurezza, non fa differenza. Il pensiero collettivo si disarticola e la magistratura nel suo complesso si indebolisce. È un modo per ricondurla “alla sua tradizionale funzione di elementi di equilibrio della società e non già di eversione”. Sono parole di Gelli nel Piano di rinascita democratica. Una citazione che la maggioranza non richiama nel celebrare la riforma. Tutto si tiene. L’indebolimento della magistratura si mostra così coerente con una modifica della forma di governo che marginalizza il Parlamento e concentra i poteri sull’esecutivo e in particolare sul presidente del Consiglio. Con la particolarità che basta metter mano alla legge elettorale, come capiscono anche a Palazzo Chigi. Al tempo stesso, l’autonomia differenziata è di nuovo in pista. Ce lo dice Calderoli nella sua ultima intervista al Corriere del Veneto, mentre la Lombardia scalda i motori su varie materie non-Lep.

Questo vuol dire che il referendum sulla giustizia sarà probabilmente l’unica occasione in cui il popolo italiano potrà parlare sul complesso delle riforme volute dalla destra. Sulla legge elettorale un referendum abrogativo totale sarebbe precluso, e uno parziale sarebbe limitato a modifiche sostanzialmente marginali. Ce lo dice la giurisprudenza pregressa della Consulta. Dalla quale scaturisce anche una preclusione del voto popolare sulle intese di autonomia approvate con legge rinforzata ex art. 116.3 della Costituzione. Si conferma quanto sia stata improvvida la dichiarazione di inammissibilità del referendum chiesto da 1.300.000 elettori, e quanto sia stata sbagliata la decisione dello schieramento referendario di non riproporlo. Bisognerà quindi riversare nel singolo voto sulla riforma della giustizia tutti i no all’Italia “rivoltata come un calzino”, secondo il Meloni-pensiero. Non consentiamo che ci vendano la favola di una banale battaglia corporativa.

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