Il documento conclusivo dell’Assemblea generale della Cgil del 6 novembre dichiara l’appoggio del sindacato alle iniziative volte a contrastare la controriforma Nordio nella campagna referendaria. Ma, a quanto si apprende, la Cgil non si impegnerebbe in una raccolta di firme. Una posizione sostanzialmente condivisa dalle maggiori organizzazioni della sinistra. La ragione sarebbe nella priorità dello sciopero generale del 12 dicembre, e del contrasto alla legge di bilancio. Un impegno concreto sarebbe possibile solo a gennaio, troppo tardi per la scadenza del termine per la raccolta delle 500 mila firme fissato ex legge 352/1970 al 30 di quel mese. Si allontana la prospettiva di costituire un comitato promotore e avviare la raccolta.
Siamo convinti? Non proprio. Il comitato promotore che in Cassazione deposita la richiesta di voto popolare non è assimilabile a una qualunque bocciofila, ma ha una specifica figura giuridica, che in specie lo garantisce nell’accesso alla comunicazione elettorale, e lo individua come potere dello Stato, abilitato persino a giungere in Corte costituzionale (ord. 17/1978, sent. 69/1978). Inoltre, una raccolta di firme online ora potrebbe persino contribuire a un contesto più favorevole per lo sciopero generale, o la legge di bilancio. Il punto è che il centrosinistra non è compatto. Basta leggere il 4 novembre Augusto Barbera sul Foglio, o il 14 Francesco Clementi sul Sole. Inoltre, può esserci la convinzione che il Paese non si mobilita per la magistratura. Ecco quindi la domanda: cosa c’è davvero nelle urne di aprile? Il referendum va letto come elemento di un mosaico più ampio dei magistrati e della schiforma. Ne ho già scritto su queste pagine. Una conferma si trae dai rumors per cui Meloni penserebbe a elezioni anticipate. Si votò il 25.09.2022. Questo porrebbe le urne nella primavera del 2027, posto che probabilmente nemmeno Meloni riuscirebbe a giungere allo scioglimento prima dei 4 anni, 6 mesi e 1 giorno di legislatura necessari per il diritto alla pensione dei parlamentari. Certo, Meloni pensa di trarne vantaggio per sé e per FdI. Ma lo scioglimento anticipato si mostra plausibile anche per la maggioranza nel suo complesso.
La schiforma Nordio arriva per prima al traguardo, e consegna a FI la bandierina di un remake del berlusconismo d’annata. Mentre scorre la campagna referendaria rivedremo il premierato, mai sepolto. Non sarà necessaria un’altra riforma costituzionale, bastando una legge elettorale secondo il Meloni-pensiero, che – da quel che ne sappiamo – passa senza problemi tra le maglie troppo larghe della giurisprudenza costituzionale. Un benefit collaterale è che un referendum abrogativo totale per la legge elettorale è inammissibile, e uno parziale è fortemente limitato dall’eccesso di manipolatività. Questa è la bandierina di FdI. Non è irragionevole collocarla nell’autunno del 2026. Si aggiunge l’autonomia differenziata (Ad). In Regione Lombardia la destra sta lavorando a un’intesa per acquisire di fatto tutta la sanità, in specie territoriale. Punta a una privatizzazione che cancella in ampia misura il Servizio sanitario nazionale. Molte associazioni di società civile si battono per contrastare il disegno in atto. La destra intenderebbe portare in Consiglio dei ministri una bozza di intesa subito dopo il voto regionale del 23 e 24 novembre. Anche qui, il successivo iter ex art. 116 Cost. potrebbe concludersi entro l’autunno 2026. Una tempistica coerente con la risposta di Calderoli a una interrogazione Sarracino e altri (3-02311, 12 novembre, Camera dei deputati). Auspica la definizione “dei negoziati in corso nel più breve tempo possibile, anche attraverso l’adozione preliminare di atti di natura politica”, come i preaccordi del 2018 con il governo Gentiloni. È la bandierina della Lega.
Le opposizioni in parlamento non possono molto. Regole e prassi costruite nell’arco di decenni consentono a una maggioranza compatta di fare quello che vuole. È appunto lo scambio sulle riforme il cemento di una coalizione, per altro verso divisa su tutto. Consente entro il 2026 a ciascun partner di maggioranza di presentare un successo alla propria base elettorale. Basterebbe poi superare la legge di bilancio distribuendo qualche mancetta, per giungere in primavera allo scioglimento anticipato in un Paese già rivoltato come un calzino, secondo la promessa elettorale di Meloni: schiforma della giustizia, premierato di fatto, quasi-federalismo on demand. Il plebiscito che Meloni cerca nel voto popolare la aiuterebbe non poco in vista del 2027. Chi si oppone deve scegliere tra una strategia difensiva di riduzione del danno che anticipa la sconfitta, e una di attacco che propone un progetto politico alternativo. Comitato promotore e raccolta firme sono parte di questa scelta.


