Questi ultimi giorni sono stati segnati da una notizia importante e dall’indubbio impatto emotivo: l’ex boss Giovanni Brusca è stato scarcerato e sarà sottoposto, per i prossimi 4 anni, a regime di libertà vigilata. Non si tratta di un mafioso qualunque ma di un capofamiglia sanguinario, responsabile di indimenticabili atrocità tra cui il rapimento e l’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, strangolato e sciolto nell’acido perché figlio di un “pentito”, e gli attentati mortali al giudice Rocco Chinnici e al giudice Giovanni Falcone e alle loro scorte. Per molti anni Brusca si è reso responsabile di cruenti spargimenti di sangue, ecco perché sono comprensibili e condivisibili la tristezza e la rabbia che la notizia della sua scarcerazione ha scatenato in tantissime persone. Fa male, fa rabbia pensare che un uomo capace di simile violenza sia nuovamente “a piede libero”. Fa anche un po’ paura pensarlo.
Però è giusto, è una decisione corretta. Giovanni Brusca, assicurato alle patrie galere nel 1996, ha semplicemente finito di espiare la propria pena a 25 anni di reclusione. Una condanna che può sembrare insufficiente o iniqua se commisurata ai reati da lui commessi, ma che ha dovuto tenere conto del fatto che, dal 2000, l’ex mafioso, dopo un iniziale tentativo di beffare le istituzioni, ha collaborato concretamente con la giustizia, fornendo ai magistrati preziosissime informazioni sulla stagione stragista, sull’organizzazione interna della mafia ma anche sui rapporti intrattenuti tra cosa nostra e colletti bianchi, ossia i vergognosi e pericolosi intrecci tra criminalità organizzata ed un ramo deviato delle istituzioni e del mondo politico. Informazioni e rivelazioni riscontrate che hanno portato non solo ad arresti, ma anche a sentenze di condanna, segno della veridicità degli elementi forniti da questo collaboratore di giustizia.
“Umanamente è una notizia che mi addolora – ha commentato Maria Falcone, sorella del giudice ucciso nella strage di Capaci da una violenta carica esplosiva azionata proprio da Brusca – ma questa è la legge, una legge che peraltro ha voluto mio fratello e quindi va rispettata. Mi auguro solo che magistratura e forze dell’ordine vigilino con estrema attenzione in modo da scongiurare il pericolo che torni a delinquere, visto che stiamo parlando di un soggetto che ha avuto un percorso di collaborazione con la giustizia assai tortuoso”. Sulla stessa linea di pensiero anche il fratello del giudice Borsellino, Salvatore Borsellino, il quale con la Falcone condivide il dolore di una vita segnata dalla ferocia mafiosa, ma anche il pregio di provenire da una famiglia che crede totalmente nella legge e nella giustizia e che “rispetta la legge anche quando è duro farlo”.
“La liberazione di Brusca, che per me avrebbe dovuto finire i suoi giorni in cella – ha dichiarato Borsellino -, è una cosa che umanamente ripugna. Però, quella dello Stato contro la mafia è, o almeno dovrebbe essere, una guerra e in guerra è necessario anche accettare delle cose che ripugnano”. “Questa legislazione premiale per i collaboratori di giustizia – ha infine ricordato Salvatore – fa parte di un pacchetto voluto da Giovanni Falcone per combattere la mafia. Va considerata nella sua interezza ed è indispensabile se si vuole veramente vincere questa guerra contro la criminalità organizzata”. Reazioni composte, rispettose e coerenti con il fine ultimo di servire la legge e la giustizia.
Sono state invece molto meno coerenti, quasi incomprensibili e perfino eccessive, le reazioni di sdegno provenienti dal mondo della politica, che ha attaccato la magistratura e gridato allo scandalo. Ancora più incomprensibile e contraddittorio appare poi l’atteggiamento di chi mostra sdegno per la scarcerazione di un collaboratore di giustizia che ha finito di scontare la propria pena, ma si riserva al contempo di ridiscutere la legge sull’ergastolo ostativo poiché ritiene troppo pregiudizievole sancire un “fine pena mai” per chi si rifiuta di collaborare con gli inquirenti. A quanti cavalcano l’onda dello sdegno solo per accaparrarsi consensi è forse opportuno rispondere con le parole del procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero de Raho, che ha detto che la scarcerazione di Brusca deve essere invece considerata una vittoria dello Stato.
“Avere collaboratori – ha dichiarato Cafiero de Raho – che consentono di ricostruire vicende criminali di straordinaria gravità come quelle sulle quali Brusca ha reso dichiarazioni, credo che sia una vittoria. Il nostro è uno Stato di diritto, il che vuol dire che la legge va applicata sempre. Anche applicando ai collaboratori di giustizia i benefici previsti dalla legge”. Analoga interpretazione alla vicenda è stata data da Pietro Grasso, ex procuratore nazionale antimafia che con Falcone e Borsellino collaborò strettamente quando era giudice a latere nel primo maxiprocesso a cosa nostra. “Con Brusca – ha dichiarato l’ex magistrato – lo Stato ha vinto non una ma tre volte. La prima quando lo ha arrestato, la seconda quando lo ha convinto a collaborare, perché le sue dichiarazioni hanno reso possibili processi e condanne. La terza quando ne ha disposto la liberazione, rispettando l’impegno preso con lui e mandando un segnale potentissimo a tutti i mafiosi che sono rinchiusi in cella e la libertà, se non collaborano, non la vedranno mai”. “L’indignazione di molti politici che di codice penale e di lotta alla mafia capiscono ben poco – ha concluso Grasso – mi spaventa”.
Forse, piuttosto che plateali dichiarazioni di sdegno per una legittima scarcerazione, sarebbe bene che la nostra classe politica meditasse molto attentamente sulla propria posizione in merito a questa legislazione premiale che rischia di essere rivisitata e svilita; una legislazione che, ad oggi, sembra invece essere forse l’unico efficace strumento di contrasto all’egemonia mafiosa. Una legislazione nella quale Giovanni Falcone, a ragione, ha sempre creduto.
Anna Serrapelle-ilmegafono.org