L’appello sul decreto sicurezza promosso da più di 250 giuspubblicisti ed aperto all’adesione di tutti i cittadini ha raccolto in pochi giorni quasi diecimila firme. Come costituzionalisti ci siamo sentiti di dover sottoporre all’opinione pubblica l’allarme per i contenuti del provvedimento e per il modo in cui è stato sottratto all’esame parlamentare, nel corso del quale, proprio a causa delle sue molteplici criticità, si era dimostrato bisognoso di modifiche. Un testo che prevede un notevole numero di nuovi illeciti penali e l’aggravamento delle sanzioni per altri reati che già erano previsti.
Quando sono stata chiamata a dare un parere da studiosa alle commissioni affari costituzionali e giustizia della Camera che stavano esaminando questo discusso provvedimento, censurato persino dagli special rapporterus dell’ONU, le mie parole sono risuonate inutilmente in aule parlamentari semideserte, nelle quali non è mai intervenuta, così come nel corso dell’iter della legge Calderoli, poi censurata dalla Corte costituzionale, la voce di alcun parlamentare di maggioranza. Per questo, non avendo avuto l’opportunità di comprendere le ragioni alla base del provvedimento, vi sottopongo queste domande.
1) Perché nell’art. 31 del decreto si scriminano le condotte degli agenti dei servizi che promuovono e dirigono organizzazioni terroristiche, rendendole non punibili? Quale finalità intende perseguire tale norma?
2) Perché all’art. 28 si prevede che gli agenti di pubblica sicurezza, cui va tutto il nostro rispetto e la nostra fiducia di cittadini, ben consci del loro delicato compito e delle condizioni spesso molto difficili in cui sono chiamati ad operare, possano portare una pistola ulteriore oltre a quella d’ordinanza, senza licenza, fuori dell’orario di servizio?
3) Perché in molte altre disposizioni si prevede la criminalizzazione di condotte, o l’inasprimento di sanzioni, senza tener conto dei prevedibili effetti sul sovraffollamento carcerario, rispetto al quale non si pone rimedio, oltre che sui carichi di lavoro e la lentezza degli uffici giudiziari?
4) Cosa ha determinato il Governo, mentre scriminava le condotte già ricordate, a decidere la criminalizzazione di condotte di poca o nulla pericolosità, che si possono sintetizzare come espressione di dissenso, di marginalità, quando non di disperazione, come nel caso della protesta passiva in carcere rispetto ad ordini impartiti?
5) Perché si è sottratta al Parlamento la funzione legislativa, la possibilità di terminare l’esame dell’originario disegno di legge ed emendarlo, migliorandolo grazie all’approfondito esame che era in corso?
6) Perché il Governo, che gode di un’ampia e coesa maggioranza parlamentare, si accinge anche stavolta ad apporre la questione di fiducia per irreggimentare ed ulteriormente velocizzare l’iter di conversione di un decreto già in vigore, che quindi non necessita di alcuna particolare accelerazione?
Come costituzionalista, vedendo l’approvazione di provvedimenti in sempre più radicale contrasto con norme e principi costituzionali fondamentali, sento la responsabilità di dare un segnale. Calpestare il Parlamento e modificare gli equilibri che regolano il rapporto tra autorità e libertà, come fatto con questo decreto, significa alterare la stessa forma di stato. Significa portare la nostra, al di fuori delle democrazie liberali. E significa anche, inevitabilmente, suscitare una reazione diffusa nella società, rischiando di radicalizzare il dissenso rispetto all’indirizzo politico in atto. Un’ultima domanda allora, cui prodest?
*Professoressa ordinaria di Diritto costituzionale all’università UnitelmaSapienza