Il discorso che Maurizio Landini ha tenuto il Primo Maggio a Bologna e l’intervista comparsa lo stesso giorno su la Repubblica continuano a fare discutere. In effetti il segretario della Cgil ha posto una grande questione, quella della costruzione di un nuovo sindacato unitario per tutti i lavoratori, che però deve nascere “dal basso, dalla partecipazione delle lavoratrici e dei lavoratori iscritti e non (il corsivo è nostro), … perché non deve essere un’operazione degli apparati burocratici”.
Vi è chi ha plaudito a questa svolta, dandone però immediatamente un’interpretazione politicista e verticista, favorito dallo stesso titolo in prima pagina de la Repubblica “Un solo sindacato per il lavoro”. Chi, come Marco Bentivogli della Cisl, ha reclamato comportamenti concreti e non annunci, facendo esplicito riferimento alle divisioni nuovamente riaffiorate tra i metalmeccanici. Chi invece ha avanzato preoccupazioni, temendo che l’esito della proposta si possa risolvere in una semplice riunificazione delle tre maggiori sigle sindacali, ripercorrendo così strade già battute con nessun successo alcuni decenni fa.
In realtà il tema sollevato è di grande complessità e mal digerisce schieramenti frettolosi di opposte tifoserie. Il grande merito di Landini sta nell’avere posto, o riproposto, il problema, ma questo richiede una discussione attenta e approfondita e di non breve corso. E soprattutto la creazione di condizioni reali che al momento non paiono esserci.
La stessa manifestazione del 9 febbraio a Roma è stata estremamente significativa dal punto di vista della straordinaria partecipazione popolare, ma non certo per la qualità della piattaforma unitaria su cui era stata convocata, del resto passata del tutto in secondo piano di fronte al fatto principale, ovvero la presenza fisica di decine di migliaia di lavoratrici e lavoratori che si ritrovavano insieme dopo molto tempo. Quella massiccia presenza lanciava una sfida non solo al governo ma alle stesse dirigenze sindacali, chiedendo coerenza e continuità nella promozione del conflitto sociale. E non è bastato, come si può ben vedere dalla intesa firmata con il governo sulla scuola e la sospensione – o revoca definitiva? – dello sciopero del comparto scolastico previsto per il 17 maggio. In questo caso l’unità d’azione delle sigle sindacali ha servito da freno e da cedimento grave a partire da un punto di rilevanza non solo sindacale ma istituzionale e costituzionale, come la questione dell’autonomia differenziata delle regioni.
Che in questa nostra mal combinata stagione non vi sia alcuna forza politica in grado di rappresentare il lavoro è cosa fin troppo drammaticamente evidente. E non da oggi. Basta ricordare che la ricostruzione della rappresentanza politica e non solo sindacale del mondo del lavoro era uno dei maggiori crucci di un grande dirigente sindacale quale fu Claudio Sabattini, scomparso più di quindici anni fa, che lo portò, particolarmente negli ultimi tempi della sua vita, a tematizzare sotto diversi aspetti il problema ed a cercarne le vie di soluzione.
Ma questa condizione di per sé non libera il campo per un processo di unificazione del mondo del lavoro e neppure se restrittivamente lo concepissimo circoscritto alle organizzazioni sindacali, quasi che di intralcio a un simile processo fosse stata nel passato l’eccessiva invasione di campo da parte delle forze politiche. Prova ne è che il punto più alto raggiunto dall’unità sindacale nel nostro paese è rappresentato dalla stagione dei consigli di fabbrica, vale a dire in quel periodo situato tra l’autunno caldo e la metà degli anni Settanta. Non si può certo dire che i partiti allora fossero assenti, e non mi riferisco solo al Pci, o non coltivassero una loro diretta rappresentanza nel mondo del lavoro.
Il sindacato come soggetto politico, come si diceva allora, non ostacolava la crescita della rappresentanza politico-partitica, casomai ne garantiva le fondamenta all’interno della classe e del campo sociale di riferimento, in un grande processo di partecipazione e di politicizzazione della società civile. La spinta all’unità si fondava in primo luogo sulla condizione materiale del lavoro nelle fabbriche, sui reparti e sulle catene di montaggio, da cui prendeva corpo la figura del delegato di reparto, espressione di una simbiosi tra democrazia diretta e delegata (ricordiamo il principio della revocabilità della delega), che spingeva la rappresentanza sindacale al di là dei confini degli iscritti al sindacato, interpretando i bisogni e le aspirazioni anche dei non iscritti.
Tutto ciò, si ricorderà, aprì un dibattito, anche aspro ma produttivo, nella Cgil e nel Pci tra chi considerava i consigli come la struttura di base del nuovo sindacato e chi era invece legato alla tradizione degli iscritti e delle commissioni interne. Nello stesso tempo le esperienze consiliari influenzavano direttamente e positivamente non solo il dibattito politico, ma anche la produzione legislativa che allora poteva ben dirsi riformista nel senso proprio del termine. Per fare un esempio la riforma sanitaria si avvalse del nuovo concetto di salute che emergeva da quelle comunità scientifiche allargate che avevano al centro i consigli e attorno e legati ad essi figure anche di altissimo profilo che agivano nel comparto sanitario, unendo così scienza a esperienza e sperimentazione pratica. Basterebbe oggi guardare a Taranto, per capire come siamo lontani rispetto a quei tempi.
In questa direzione si muove la stessa proposta di Landini quando parla di un processo che veda protagonisti “le lavoratrici e i lavoratori iscritti e non” alle organizzazioni sindacali. Poiché i consigli non ci sono più e neppure le grandi concentrazioni operaie nelle fabbriche, bisogna guardare alla nuova realtà del mondo del lavoro. Il cuore della proposta di Landini sta proprio qui. Quando parla dell’aumento del lavoro precario, povero, del part-time involontario, del dilagare del lavoro a termine, degli incidenti e dei morti sul lavoro, che i dati Istat non fanno che certificare, se li si vuole leggere per il verso giusto. Quando vede nella logistica il terreno strategico in cui incontrare queste nuove realtà e soggettività del lavoro precario o addirittura servile, ove una modernità che ripiega su sé stessa riporta in auge ciò che pareva superato, come il lavoro a cottimo. Quando sottolinea la necessità di trovare i contorni giusti per ricomporre la frammentazione del mondo del lavoro.
Siamo di fronte ad un’estensione ed a una riproposizione in termini ben più ampi e rinnovati del concetto di coalizione sociale, di cui Landini aveva parlato tempo addietro, ancora da segretario della Fiom, che in un nuovo sindacato potrebbe trovare un pilastro fondamentale.
In questo quadro è necessario andare più a fondo nella discussione attorno al salario minimo orario e al reddito di base, superando vecchie resistenze sindacali che appaiono del tutto anacronistiche di fronte alla realtà. Tornare e rinnovare quel dibattito che ai suoi tempi ha contrapposto anche le parti migliori della Cisl a quelle della Cgil, attorno alla questione se la rappresentanza sindacale si fonda sull’ìscrizione al sindacato o se esso debba estenderla anche ai non iscritti, purché tutti siano in grado, qualunque sia il loro sindacato di appartenenza – se ve ne è uno - e le condizioni in cui si svolge il loro lavoro, di partecipare all’elaborazione delle piattaforme rivendicative e alla validazione attraverso il voto delle intese sindacali raggiunte. Fornendo così una base reale al principio della validità erga omnes delle intese e dei contratti.
Come si vede, ed ho fatto solo due esempi dei temi specifici che stanno sul tappeto, il cammino è lungo. Proprio per questo conviene cominciarlo da subito e attrezzarsi nel modo dovuto. Più che di una unità sindacale, stiamo quindi parlando della rifondazione di un sindacato generale.