“La parola d’ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti. Essa già trasvola ed accende i cuori dalle Alpi all’Oceano Indiano: vincere! E vinceremo!, per dare finalmente un lungo periodo di pace con la giustizia all’Italia, all’Europa, al mondo”.
Così Mussolini il 10 giugno del 1940. Anche allora la guerra trovava giustificazione nella promessa della pace. In effetti l’Europa, dopo quella guerra, ha goduto di un lungo periodo di pace che è durato (messa fra parentesi la guerra della NATO nei Balcani) dal 9 maggio 1945 al 24 febbraio 2022. Soltanto che – a differenza di quel che prometteva Mussolini – la pace è stata il frutto della sconfitta dell’Asse, non della vittoria. Sarebbe interessante capire quale pace ci prospettano gli architetti dell’ordine mondiale dopo la preannunciata vittoria sulla Russia. Perché una cosa è chiara, grazie alla coraggiosa resistenza degli ucraini e alle generose forniture di armi di USA, GB e NATO, oltre al prezioso supporto dell’intelligence, la guerra ha cambiato segno.
Nella fase iniziale l’obiettivo era quello di bloccare l’offensiva della Russia per dare una chance all’Ucraina di avviare un negoziato che consentisse di pervenire rapidamente al cessate il fuoco, sulla base di un compromesso con concessioni reciproche. In questa fase le trattative sono andate avanti e il 15 marzo il Financial Times ha pubblicato una bozza di accordo in 15 punti che prevedeva uno status di neutralità per l’Ucraina, che avrebbe dovuto riconoscere l’annessione della Crimea alla Russia e la proclamata indipendenza delle due Repubbliche del Donbass. Su questa bozza è calato un silenzio di tomba nelle Cancellerie occidentali. Dopo il primo mese di combattimenti che hanno testato la notevole capacità di resistenza delle forze armate ucraine, addestrate, guidate e rifornite dalla NATO, è stata mandata in soffitta ogni prospettiva di mediazione ed è stata avviata a Ramstein, il 26 aprile, la fase due che si pone l’obiettivo di porre le forze armate ucraine, previo un adeguato rifornimento di armi pesanti, in grado di pervenire alla sconfitta della Russia, sia pure a prezzo di un conflitto destinato a durare mesi, se non anni.
Dopo Ramstein, il Presidente Zelensky, si è lasciato sfuggire che l’Ucraina non avrebbe sollevato al tavolo del negoziato il tema della Crimea, annessa alla Federazione Russa nel 2014. Immediatamente è stato zittito dal Segretario della NATO Stoltenberg che, in un’intervista al giornale tedesco Die Welt, ha dichiarato: “l’Ucraina deve vincere questa guerra perche’ difende il suo territorio. I membri della Nato non accetteranno mai l’annessione illegale della Crimea. Ci siamo inoltre sempre opposti al controllo russo su parti del Donbass nell’Ucraina orientale.”
Commentando quest’intervento, l’ambasciatore Umberto Vattani ha osservato: “Gli occidentali avevano sin dall’inizio dichiarato di voler intervenire a difesa dell’Ucraina per salvaguardarne l’indipendenza e la sovranità di fronte alla prepotenza e ai soprusi del Cremlino. Ma chi difenderà Zelensky dalle pretese della Nato che vuole imporre la sua linea a quella di Kiev in vista delle trattative da intavolare con Putin?” (Avvenire, 9/05/2022).
E’ inaccettabile che Stoltenberg parli anche a nome nostro e ci faccia sapere che noi non accetteremo mai l’annessione della Crimea alla Federazione russa, mantenendo vivo anche questo fronte di conflitto fra Russia e Ucraina. E’ vero che la NATO ci ha sempre dato gli ordini e che noi li abbiamo sempre eseguiti, però nelle sedi proprie; non era mai accaduto che qualcuno ci dicesse, con un’intervista ad un giornale, cosa dovessimo fare. Certo se la parola d’ordine che arriva d’oltreatlantico è “vincere”, l’Europa deve stringere i ranghi e abbassare la testa. Invece, come osserva l’ambasciatore Alberto Bradanini sul Manifesto del 10 maggio: “I governi europei dovrebbero lavorare a un compromesso, perché è così che finiscono le guerre. Si eviterebbero altri guai per il popolo ucraino e le economie europee, oltre a una pericolosissima escalation nucleare. Attraverso la Nato, gli Usa tengono l’Europa sotto vigilanza, sterilizzandone ogni anelito verso la sovranità, semmai ve ne fossero le condizioni endogene.”
Intanto siamo arrivati al settantottesimo giorno di guerra e all’orizzonte non si intravede niente di buono, anzi si va delineando quanto sia elastico il concetto di vittoria. Lo stanziamento di un fiume di dollari (l’11 maggio la Camera ha approvato aiuti per 40 miliardi) e la firma da parte di Biden di una legge per velocizzare i trasferimenti di armi all’Ucraina, dà slancio alle ambizioni ucraine in ordine agli obiettivi della guerra, tanto da puntare alla liberazione di tutto il territorio, anche di quella parte di cui avevano perso il possesso dal 2014. Lo ha esplicitato in un’intervista al “Financial Times” il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba. “L’immagine della vittoria è un concetto in evoluzione – ha spiegato al quotidiano britannico – nei primi mesi ci sarebbe sembrata una vittoria se avessimo ottenuto il ritiro delle forze russe alle posizioni che occupavano prima del 24 febbraio e il pagamento dei danni inflitti. Ora, se siamo forti abbastanza sul fronte militare e se vinciamo la battaglia per il Donbass, che sarà cruciale per le successive dinamiche del conflitto, certamente la vittoria in questa guerra per noi sarà la liberazione del resto del nostro territorio“.
Per Mussolini la vittoria doveva costare soltanto qualche migliaio di morti, da gettare sul tavolo delle trattative di pace. La storia dimostrò che aveva sbagliato i conti.
Se avessero sbagliati i conti anche Biden e Stoltenberg?