Dalla fine della seconda guerra mondiale non si è mai vissuta un’epoca più oscura di questa.
Le conquiste di civiltà che l’umanità aveva affermato dopo la sconfitta del nazismo vengono rinnegate ogni giorno di più con attori diversi ma guidati dallo stesso spirito di barbarie.
Dopo l’elezione alla presidenza del Brasile di un militare fascista che ha espresso il suo apprezzamento per Hitler e i golpisti brasiliani degli anni Settanta, criticandoli, anzi, per non aver assassinato un numero sufficiente di “comunisti”, si è ulteriormente avvicinato lo strepitio degli zoccoli dei quattro Cavalieri dell’Apocalisse: Morte, Carestia, Pestilenza e Guerra.
Nel secolo scorso i quattro Cavalieri hanno devastato per due volte la terra.
La prima volta è avvenuto con la prima guerra mondiale, che il nostro paese avrebbe potuto scampare se non fosse intervenuto il colpo di Stato monarchico che “costrinse” l’Italia alla guerra. Nella ricostruzione dei torti della Monarchia, la narrazione comune mette al centro le vicende dell’8 settembre 1943 e la fuga da Roma di Vittorio Emanuele III, mentre l’esercito italiano, lasciato senza ordini, si sbandava.
In realtà il torto più grave al popolo italiano Vittorio Emanuele III lo compì non l’8 settembre ma il 26 aprile 1915 quando firmò segretamente lo sciagurato trattato di Londra, con il quale l’Italia si impegnava a entrare in guerra entro un mese. In pratica, con la firma del Trattato di Londra, il Re si impegnò a provocare la morte di centinaia di migliaia dei suoi sudditi, con la speranza di essere ammesso al banchetto della vittoria.
Come nel resto d’Europa, anche sul fronte italiano la guerra assunse i connotati di una guerra di sterminio: intere classi di età furono cancellati nell’inferno delle trincee. E quando nel 1918 furono chiamati alle armi 270.000 ragazzi nati nel 1899, ciò avvenne perché le classi precedenti erano state quasi completamente annientate.
In una circolare del 28 settembre 1915, avente a oggetto la disciplina militare, il generale Cadorna così si esprimeva: «Deve ogni soldato […] essere convinto che il superiore ha il sacro potere di passare per le armi i recalcitranti ed i vigliacchi. […] Ognuno deve sapere che chi tenti ignominiosamente di arrendersi o di retrocedere, sarà raggiunto dalla giustizia sommaria del piombo delle linee retrostanti o da quello dei Carabinieri incaricati di vigilare alle spalle delle truppe, sempre quando non sia stato freddato prima da quello dell’ufficiale». In un telegramma del 1 novembre 1916, Cadorna ordinava la decimazione: «Ricordo che non vi è altro mezzo idoneo per reprimere i reati collettivi che quello della immediata fucilazione dei maggiori colpevoli, e allorché l’accertamento delle identità personali dei responsabili non è possibile, rimane ai comandanti il diritto ed il dovere di estrarre a sorte fra gli indiziati alcuni militari e punirli con la pena di morte. A codesto dovere nessuno può sottrarsi».
Alla fine si contarono 650.000 morti: questo fu il prezzo della “vittoria”.
Quest’anno ricorre il centenario ed è forte la tentazione che in questo clima politico, le celebrazioni della “vittoria” diventino l’occasione per una riabilitazione della guerra o per l’elogio del massacro, sotto la forma dell’elogio del sacrificio dei soldati italiani, iniziato con i riti del milite ignoto che ‒ non a caso ‒ fu tumulato nel vittoriano il 4 novembre del 1921.
Ma la macabra liturgia del grande sacrificio collettivo per la Patria non bastava certo a placare la sofferenza e la disperazione di un popolo che vide la morte entrare praticamente in ogni casa per portare via quello che la famiglia aveva di più sacro: i propri figli.
Sfruttando il malessere generale, il fascismo ebbe facile gioco ad avvalersi del mito della vittoria tradita.
Il 4 novembre evitiamo di resuscitare il mito del sacrificio salvifico per la Patria e della vittoria tradita: si celebri la pace, non la guerra.