Prefigurare un percorso di pace oltre il cessate il fuoco: un mandato ONU per Gaza
La morte regna sovrana a Gaza. Quando a dicembre abbiamo prenotato la sala per questo convegno, immaginavamo che prima del 6 febbraio sarebbe intervenuto il cessate il fuoco, decretato dal Consiglio di Sicurezza o comunque imposto ad Israele dai suoi alleati storici, per cui la questione principale da affrontare sarebbe stata quella di progettare un dopoguerra che potesse aprirsi alla speranza della pace.
Ci siamo sbagliati, la tempesta di fuoco scatenata da Israele a seguito dello shock causato dagli atti di barbarie commessi da Hamas il 7 ottobre, non si è arrestata e la Comunità internazionale non si è attivata per fermare i massacri. Soltanto il Sud Africa ha avuto il coraggio di alzare la voce ed ha interpellato la Corte Internazionale di Giustizia dell’ONU, contestando ad Israele la violazione della Convenzione del 1948 per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio. Israele non ha potuto sottrarsi alla giurisdizione della Corte dell’Aja, così come ha fatto con la Corte penale internazionale, perché – sfortunatamente – il 9 marzo 1950 ha firmato la Convenzione a cui hanno aderito quasi tutti gli Stati del Mondo, restando così vincolato alla competenza della Corte. L’ordinanza pronunciata dalla Corte dell’ONU il 26 gennaio ha valore storico perchè nell’eterna lotta fra la forza ed il diritto segna un punto a favore del diritto. Però se le misure d’urgenza decretate dalla Corte per scongiurare il rischio di genocidio resteranno lettera morta, sarà ancora una volta la forza a prevalere sul diritto. E’ un esito che non vogliamo augurarci.
Sarà la Corte all’esito del giudizio di merito a valutare se, ed in quale misura, le violenze commesse da Israele contro la popolazione di Gaza rientrino nel campo di applicazione della Convenzione, quello che a noi interessa è scongiurare che il genocidio si compia. Il punto di partenza è fare i conti con la vastità della tragedia in atto. Non è semplice, non ci sono le parole per dirlo. Come fare a descrivere una condizione umana dove un’intera popolazione 1.9 milioni di persone (su 2.2 milioni) ha dovuto lasciare le proprie case, incalzata dai bombardamenti per ammassarsi in un’area ristretta, senza riparo, senza cibo, al freddo nel fango, senza servizi igienici. Come descrivere la condizione di una società che in tre mesi ha avuto 27.000 morti, fra cui 10.000 bambini e 7.000 donne.
Dove ci sono 66.000 feriti da curare quando sono stati danneggiati e hanno cessato di funzionare 26 ospedali su 36, sono state colpite 94 strutture sanitarie e 79 ambulanze, causando la morte di centinaia di medici e paramedici (dati OMS). Come si fa a descrivere la situazione di 19.000 bambini, rimasti orfani o soli, senza nessun adulto che si prenda cura di loro, bambini che “sono intrappolati in un incubo che peggiora ogni giorno che passa” (Catherine Russell UNICEF)? Come descrivere la condizione delle oltre 50.000 donne in gravidanza che non hanno avuto accesso ai controlli medici e sono costrette a partorire in tende di plastica o in edifici pubblici (MSF) e dei 20.000 bambini che sono nati in queste condizioni e lottano per sopravvivere? Come si fa a descrivere la sofferenza di 1.000 bambini che hanno avuto uno o due arti amputati, a volte con interventi effettuati senza anestesia (UNICEF)? Ha osservato il giurista Luigi Daniele (il Manifesto, 1/2/24): “L’intera popolazione di Gaza avanza verso un patibolo collettivo di fame, sete, epidemie, mancanza di medicinali e cure per feriti e ammalati. Ciascuno di questi fattori, per sé, è una grave crisi umanitaria, ma è il loro effetto cumulativo a essere letale.”
Alla luce delle sofferenze “indicibili” inflitte alla popolazione di Gaza, è divenuto imperativo il cessate il fuoco. Le misure di prevenzione del Genocidio decretate dalla Corte Internazionale di Giustizia non possono trovare attuazione se non si perviene immediatamente al cessate il fuoco. Il Genocidio, come scolpito nelle parole della Risoluzione 96 dell’Assemblea Generale dell’11 dicembre 1946, “sconvolge la coscienza dell’umanità”. Solo il cessate il fuoco può impedire che il Genocidio si compia. “Cessate il fuoco” dobbiamo gridarlo sui tetti, esigere che l’Italia e l’Unione Europea impongano il cessate il fuoco, a pena di sanzioni adeguate. Il rischio, come avvertono in una drammatica lettera aperta 800 funzionari USA e UE, è quello di diventare complici di “una delle peggiori catastrofi umane di questo secolo”.
Il cessate il fuoco è una condicio sine qua non per avviare un percorso di pace ma non è sufficiente se non vi è un progetto per il futuro. Il fatto che il conflitto si prolunghi, senza che se ne intraveda una via d’uscita, dipende dalla oscurità degli obiettivi perseguiti. Ancora pochi giorni fa Netanyahu ha dichiarato che la guerra proseguirà ancora per molti mesi fino a quando Israele non raggiungerà i propri obiettivi, precisando che alla fine del conflitto non ci sarà più uno Stato palestinese.
Quando si parla di guerra al terrorismo o comunque si definisce come “guerra”, la tempesta di fuoco che Israele ha scatenato contro Gaza, bisogna considerare che la morte di civili o combattenti non costituisce mai l’obiettivo delle guerre, ma soltanto un prezzo da pagare per conseguire l’obiettivo politico che si vuole perseguire con il ricorso alle armi. Invece, in questo caso la morte di civili e combattenti più che un costo sembra l’obiettivo della guerra. Dobbiamo domandarci qual è il reale obiettivo politico che Israele vuole perseguire con la guerra, cosa vuole ottenere? Il dichiarato intento di eradicare Hamas e di eliminare tutti i suoi miliziani è un obiettivo impossibile ed assurdo. Impossibile perché non vi è un forte di Hamas da espugnare, non vi sono le divisioni corazzate da affrontare e sconfiggere sul campo di battaglia. I miliziani di Hamas sono rifugiati in una selva che è la sfortunata popolazione della Striscia. Per eliminarli tutti bisognerebbe disboscare la selva.
Non si possono eliminare i miliziani di Hamas senza compiere un vero e proprio genocidio, eliminando fisicamente una buona fetta della popolazione palestinese. Dal punto di vista della sicurezza di Israele si tratta di un obiettivo assurdo perché, se anche Hamas scomparisse, dopo aver inflitto ai Gazawi delle sofferenze così atroci, nulla può escludere che i giovani sopravvissuti alle bombe israeliane, alla fame, alla sete, alle malattie, alla morte dei loro genitori o dei loro coetanei, non sentano il bisogno di prendere le armi e di rimpiazzare i miliziani eliminati. In realtà dietro l’uso di questa violenza così estrema e sproporzionata, cova il sogno delle classi dirigenti israeliane, di liberarsi della popolazione palestinese per espandere il territorio dello Stato ebraico “dal fiume al mare”, di realizzare una seconda e definitiva Nakba.
Secondo l’ex ambasciatore di Israele Dror Eydar, “Per noi c’è un unico scopo: distruggere Gaza, distruggere questo male assoluto”. Però non è un obiettivo facilmente realizzabile, tant’è che un ministro del governo israeliano, Amichai Eliyahu, esponente del partito “potere ebraico” ha dichiarato che l’utilizzo della bomba atomica su Gaza è, a suo giudizio, “una delle possibilità” in campo”. Una possibilità chiaramente scartata perché il Movimento dei coloni, nella conferenza che si è svolta a Gerusalemme il 28 gennaio, alla quale hanno partecipato 12 Ministri del governo israeliano, ha rivendicato l’appartenenza di Gaza ad Israele per diritto biblico e ha programmato di ricostruire gli insediamenti rimossi da Gaza nel 2005 da Ariel Sharon e di estenderli. Per realizzare questo progetto, però, bisogna sbarazzarsi del terzo incomodo: gli abitanti di Gaza.
Nel suo intervento il ministro per la sicurezza nazionale (e leader del partito di estrema destra ‘Potere ebraico’) Itamar Ben Gvir si e’ espresso in favore della ”emigrazione volontaria” dei palestinesi da Gaza. ”Dobbiamo incoraggiarla, – ha detto, fra gli applausi della platea – che se ne vadano da qua”. Prima di lui il suo collega il ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich, in una dichiarazione riportata dal Times of Israel ha affermato che esiste un ampio sostegno pubblico per «l’emigrazione volontaria degli arabi di Gaza e il loro assorbimento in altri paesi». Che l’aspirazione, per risolvere la crisi di Gaza, sia quella di sbarazzarsi della popolazione ivi residente, emerge da documenti ufficiali, come quello del Ministero dell’Intelligence, datato 13 ottobre, intitolato “Opzioni per una politica riguardante la popolazione civile di Gaza”. Il documento prevede tre opzioni, le prime due contemplano che la popolazione rimanga a Gaza, la terza prevede che tutti gli abitanti della Striscia siano evacuati nel Sinai. Sembra incredibile ma lo sfollamento di tutta la popolazione (2.200.000 abitanti) dalla Striscia è stata considerata come un’opzione realistica, oltretutto conveniente per la sicurezza di Israele. Quest’aspirazione è tanto profondamente sentita da entrare nei sogni dei leader israeliani, come il sogno, illustrato dal Ministro degli esteri Israel Katz il 22 gennaio al Consiglio degli affari esteri dell’Unione europea, dell’isola che non c’è, dove scaricare la popolazione di Gaza.
Poiché Israele persegue obiettivi politici impossibili da realizzare, sia per quanto riguarda l’annientamento di Hamas, sia per quanto riguarda il sogno di sbarazzarsi della popolazione di Gaza, il traguardo della “vittoria” non può essere raggiunto. Nella perseveranza a conseguire una vittoria impossibile si consuma il dramma di una guerra che rischia di sfociare in un genocidio. La vastità delle distruzioni operate da Israele fa intravedere in controluce l’obiettivo di distruggere la presenza dei palestinesi a Gaza come comunità politica. Non è un caso se sono stati distrutti quei luoghi nei quali un gruppo umano si riconosce come comunità: l’Università, il Tribunale, il Parlamento, le scuole, gli ospedali. Non è una caso se sono stati uccisi 111 giornalisti, centinaia di medici, accademici, come Fadel Abu Hein (psicologo esperto di traumi da guerra) e scrittori, come il poeta Rafaat el Areer. Non è un caso se sono il 78% degli istituti scolastici (386 scuole) sono state danneggiate e 138 edifici completamente distrutti (UNESCO). Le distruzioni operate da Israele hanno reso la Striscia inabitabile, mirano a sciogliere tutto ciò che fa comunità e a trasformare il popolo dei Gazawi in una massa di individui senza casa, affamati, slegati fra di loro, privi di ogni riferimento di identità collettiva. Il Ministro della difesa Gallant, in una conferenza stampa tenuta il 4 gennaio, ha delineato l’ipotesi dell’intervento di una forza multinazionale a guida USA, in collaborazione con gli alleati europei e arabi di Israele, che si assumerà la responsabilità della ricostruzione di Gaza dopo la guerra.
Saranno i palestinesi, e non gli israeliani, a ”gestire gli affari civili a Gaza nel dopoguerra”, mentre Israele manterrà il controllo della sicurezza. Netanyahu ha in più occasioni dichiarato che non ritirerà l’esercito da Gaza e che Israele manterrà il controllo della sicurezza. Questo vuol dire che resterà in vigore l’assedio che ha soffocato Gaza negli ultimi 15 anni e che Israele si riserverà il diritto di arrestare o uccidere chi gli pare. E’ evidente che questo progetto non può funzionare. Fin quando Israele pretenderà di mantenere il controllo di sicurezza di Gaza, il conflitto non avrà fine e non potranno essere ripristinate le condizioni minime di vita per la popolazione di Gaza. Israele, Potenza occupante dal 1967 a seguito della guerra dei sei giorni, medita di mantenere l’occupazione su quello stesso territorio che ha messo a ferro e a fuoco, senza volersi assumere gli oneri che derivano alle Potenze occupanti dalla IV convenzione di Ginevra relativa alla protezione delle persone civili in tempo di guerra. In questo modo il conflitto non avrebbe mai termine e la guerra continuerebbe anche dopo la guerra. Non è tollerabile che dopo le stragi e le distruzioni immani provocate nella Striscia di Gaza,
Israele continui a rimanere arbitro della vita e della morte di una popolazione che ha così duramente colpito. Il primo passo da compiere è la liberazione del popolo di Gaza dal giogo dell’occupazione israeliana. Israele deve togliere il suo scarpone chiodato dal collo dei gazawi. Contestualmente al cessate il fuoco occorre progettare un intervento immediato per gestire la situazione nella Striscia di Gaza. A questo punto deve intervenire la Comunità internazionale attraverso l’ONU per definire lo status giuridico di Gaza, con una soluzione transitoria. Ciò può avvenire con una risoluzione del Consiglio di Sicurezza, adottata a norma del Cap. VII della Carta, come in passato avvenne per il Kosovo, che fu distaccato dalla Serbia e sottoposto ad una amministrazione ad interim delle Nazioni Unite, in virtù della Risoluzione 1244 del 10 giugno 1999.
La Palestina è stata già un Mandato britannico, oggi per la Striscia di Gaza si può resuscitare una sorta di Mandato affidato alle Nazioni Unite. Un’amministrazione civile e militare dell’ONU dovrebbe liberare gli ostaggi, se ancora sequestrati, e procedere al disarmo di Hamas e della Jihad islamica, che potrebbero restare attivi come partiti politici assieme ad altri, impedire che dal territorio della Striscia possano partire atti di ostilità contro Israele, affrontare tutte le emergenze causate dalla guerra, rimettere in funzione le strutture sanitarie, ripristinare le telecomunicazioni, i collegamenti aerei e marittimi della Striscia con il resto del mondo, avviare la ricostruzione e ogni altro programma indispensabile per consentire alla popolazione civile di superare i traumi prodotti dai massacri e dalle privazioni causate dai lunghi anni di assedio a cui sono stati sottoposti. L’Amministrazione dell’ONU dovrebbe promuovere la creazione, in attesa di una soluzione definitiva, di una sostanziale autonomia e autoamministrazione della Striscia di Gaza. Il processo di pace deve puntare alla riconciliazione fra i due popoli. La riconciliazione non è impossibile ma presuppone il rovesciamento di quelle categorie politiche che portano i nazionalisti israeliani ad escludere l’esistenza politica e persino fisica di ogni altro popolo nella terra che va dal “fiume al mare” e le frange più disperate dei palestinesi a nutrire lo stesso sogno uguale e contrario.