Le macchine sono fatte per essere usate. Nessun imprenditore farebbe un investimento in impianti e attrezzature per poi lasciarle ferme senza produrre ciò a cui erano destinate. Il principale investimento in impianti e attrezzature degli Stati odierni, nel Nord come nel Sud del mondo, è da tempo quello in armi, macchine per uccidere. Le armi diventano obsolete in fretta e vogliono essere usate perché se ne possano produrre e comprare di nuove. Il modo più spiccio per sbarazzarsi delle armi vecchie è la guerra, che è il “prodotto” a cui sono destinate tutti gli investimenti in armi. Questo spiega come mai, gli Stati Uniti, il principale investitore in armi del mondo, dalla Seconda Guerra Mondiale in poi non siano mai stati fermi e abbiano promosso o partecipato a quasi 200 tra guerre e conflitti armati.

Le macchine in cui le imprese investono i loro capitali hanno progressivamente preso il sopravvento sugli operai addetti al loro funzionamento, che, anche se indispensabili – senza il loro lavoro non c’è pluslavoro, plusvalore, profitto – ne sono sempre di più delle mere appendici.

Le macchine per fare le guerre di oggi non sono semplici apparecchiature, come cannoni, carri armati, blindati, aerei, razzi, navi, ma “sistemi d’arma”: non potrebbero funzionare senza reti dove telematica, sensori, radar, satelliti, radar, control room, ecc. effettuano non solo una rilevazione continua del campo delle operazioni, ma le programmano e le guidano. E queste reti coinvolgono migliaia o milioni di altre apparecchiature, con i relativi addetti macchina.

In queste condizioni i soldati, indipendentemente dal fatto che siano andati in guerra costretti o per scelta (nella migliore delle ipotesi, cioè quando non sono semplice carne da macello mandata allo sbaraglio), non sono che meri addetti macchina; appendici dei “sistemi d’arma” il cui controllo è nelle mani di chi la guerra la conduce, anche da remoto, e che non potrebbero funzionare senza l’assistenza continua di chi le produce e le vende.

Le sorti della guerra – ma anche il suo inizio e la sua conclusione – sono decise dalle macchine, cioè da chi le produce e le controlla, per lo meno fino a che ci sono degli addetti macchina che accettano disciplinatamente il loro ruolo. Se questi scompaiono, perché decimati o perché si ribellano, anche le macchine si fermano. E con esse la guerra. Non stiamo parlando di fucili, granate, mitragliatrici e bazooka e nemmeno delle loro versioni più moderne, bensì di attrezzature il cui consumo dall’andamento esponenziale sta svuotando gli arsenali e mettendo sotto stress persino le capacità produttive della più grande potenza del mondo, a un ritmo che supera le sue stesse previsioni.

Quando le macchine con cui si fa la guerra prendono il controllo dei loro addetti tutta l’attività bellica viene “industrializzata”, così come nel corso degli anni sono state industrializzate l’agricoltura, la medicina, l’informazione, la cultura, lo sport, il divertimento, ecc. La guerra fatta con le macchine e dalle macchine ha una componente nascosta costituita sia dai piani di attacco, sia dai segreti industriali di chi produce le armi che vengono usate, sia dalle regole del loro funzionamento. Ma, come ci è stato spiegato fin dalla Prima Guerra Mondiale, richiede anche una componente pubblica: una “mobilitazione totale” delle popolazioni coinvolte – e non solo di quelle – possibile solo quando esse sono o vengono convinte che alla guerra “non c’è alternativa” (There is not alternative: sappiamo bene chi l’ha detto per prima e perché).

Nella misura in cui la guerra viene fatta con le macchine, la mancanza di alternative si traduce, e non può non tradursi, nella richiesta di sempre più macchine, di sempre più armi. Così, se ieri si trovava la richiesta di più armi nei post-it appesi in cucina con l’elenco di ciò che manca, oggi apprendiamo da un telegiornale, che riporta la notizia con entusiasmo, che nelle loro letterine a Babbo Natale anche i bambini ucraini chiedono una cosa sola: armi. Mancava Babbo Natale. Adesso è arrivato.

Il cerchio si chiude: nemmeno l’ubriacatura bellica che aveva accompagnato l’entrata in guerra dell’Italia nel primo e nel secondo conflitto mondiale era arrivata a tanto.