Sabato 22 marzo il Comitato promotore del referendum sull’autonomia differenziata (Ad) ha chiuso i battenti, a seguito dell’inammissibilità dichiarata dalla Corte costituzionale con sent. 10/2025. Essenziale nella raccolta delle firme, il Comitato è poi entrato in un cono d’ombra e di silenzio, in attesa della pronuncia della Consulta. Un ossequio non dovuto. Chiamato in chiusura a una valutazione sul che fare a seguito della sentenza, non è andato molto oltre un generico “non perdiamoci di vista”.
Davvero poco, dopo il ceffone dato dalla Consulta a 1.291.488 cittadine e cittadini. Una sentenza assai malamente motivata ha tolto ai referendari il fortissimo avviamento guadagnato con lo straordinario e inatteso successo della raccolta firme in piena estate. Ha tolto l’iniziativa, consegnandola alla maggioranza per la parte non formulata in termini di illegittimità costituzionale. Ha tolto alle opposizioni lo strumento più efficace di pressione per pesare sulle faglie evidenti nella maggioranza. Ha indebolito l’iniziativa referendaria rimasta in campo con i cinque quesiti sopravvissuti. Era prevedibile il seguito dato da Calderoli alla delega legislativa sui livelli essenziali di prestazione (Lep). La bozza ribadisce tra l’altro la marginalità del Parlamento, l’evanescenza dell’istruttoria, l’invarianza di spesa, con buona pace delle indicazioni della Corte.
Di più, la maggioranza non mostra di voler seguire l’interpretazione costituzionalmente conforme che chiama in causa l’interprete e il legislatore. Il negoziato non si ferma, smentendo nei fatti chi si ostina a ritenere la legge 86/2024 sterilizzata dalla illegittimità (solo) parziale decisa con sent. 192/2024.
Non si sfugge alla sensazione che la chiusura del Comitato “sanza ’nfamia e sanza lodo” rifletta il sollievo per l’inammissibilità di almeno alcuni tra i soi-disant sostenitori del referendum. Per loro è troppo divisivo, o troppo oneroso per l’organizzazione, o troppo rischioso perché porta a una conta, o troppo ostativo a una “fisiologica” mediazione con la destra in vista di obiettivi inconfessabilmente condivisi. Quindi, meglio attestarsi sulla sent. 192. Ma, come ho detto nella riunione del 22 marzo, bisogna che nel campo progressista si pensi “out of the box”, come direbbero gli inglesi, anche abbandonando antiche ritualità istituzionali, politiche, sindacali.
È quel che ho personalmente fatto promuovendo e sostenendo con il Coordinamento per la democrazia costituzionale una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare per la modifica degli artt. 116 e 117 della Costituzione (AS 764), e richiedendo per primo che le regioni presentassero ricorsi che i “governatori” non avevano alcuna voglia di presentare. E ancora, proponendo da queste pagine la ripresentazione immediata sull’Ad di un quesito referendario riformulato, certamente alla portata di chi ha raccolto quasi 1.300.000 firme. E infine suggerendo di puntare sulla democrazia diretta come supporto a istituzioni fragili ed esangui. Lo propongo in specie per il voto online nei referendum, argomentando su sei punti.
Uno. I diritti di firmare per i referendum e di votare sono entrambi previsti nell’art. 75 Cost., e le garanzie di libertà, segretezza, uguaglianza sono le stesse.
Due. Le modalità attuative del diritto di voto sono affidate alla legge ordinaria, che basta a introdurre la modalità online.
Tre. Esiste già un decreto ministeriale (Interno, 09.07.2021, con linee guida), poi integrato (Interno, 18.10.2021) sull’avvio di una fase di sperimentazione del voto online. I decreti contengono il richiamo alle norme rilevanti.
Quattro. Basterebbe integrare la procedura già utilizzata per le firme con la sola alternativa di voto “sì/no”. Non si richiederebbe più di una leggina, e una integrazione degli artt. 17, 35 e 44 della legge 352/1970 sul voto in presenza, con la menzione della possibilità dell’online sulla piattaforma già predisposta.
Cinque. Il voto online favorirebbe per il referendum ex art. 75 Cost. il raggiungimento del quorum, con il vantaggio di non richiedere una revisione costituzionale. Sei. L’online nel voto referendario potrebbe agevolare l’introduzione per le elezioni nazionali, al fine di contrastare l’astensionismo,
Aspettiamoci a destra una reazione allergica al voto “dal divano”. Potremo ricordare a Meloni il suo spot di far contare i cittadini con il premierato. È anche possibile che maggioranza e governo usino le riforme come arma di distrazione di massa sulle colluttazioni tra partner, tutti in vario modo “quaquaraqua” su cruciali questioni di politica estera e di economia.
Nel campo progressista bisogna scegliere tra consegnarsi all’irrilevanza e osare di battersi in vista di un’alternanza di governo. Chi ha paura dell’online cattivo?