Nel prossimo autunno andranno al voto 1347 Comuni, pari al 17% del totale. Fra questi, la capitale (Roma), 5 capoluoghi di regione (Milano, Napoli, Torino, Bologna, Trieste) e 15 capoluoghi di provincia.
I faccioni dei candidati e delle candidate tappezzano già i muri delle città con mirabolanti promesse di cambiamento, senza che nessun* di loro si periti di spiegare con quali risorse andranno a realizzarle.
Già, perché dopo due decenni di politiche di austerità e di trappola del debito, la situazione finanziaria dei Comuni è drammatica: sono 1083, pari al 14% del totale, quelli in condizioni di dissesto o di pre-dissesto; fra questi, anche grandi città metropolitane come Napoli, Catania, Messina, Reggio Calabria.
E’ infatti sui Comuni che sono state scaricate in questi anni tutte le politiche di “risanamento” della finanza pubblica, con una sproporzione evidente: nonostante il peso del comparto sulla spesa della finanza pubblica nel suo insieme non superi il 7,4%, e nonostante il peso sul debito pubblico sia irrisorio (1,6%), nel periodo 2011-2018 ai Comuni sono stati sottratti 12,5 miliardi di euro, con immaginabili conseguenze sull’erogazione dei servizi per i rispettivi abitanti.
Una progressiva espropriazione di risorse, che, se forse ha permesso ai governi di presentarsi in Europa “con i compiti fatti”, non è riuscita a conseguire neppure la famosa stabilità finanziaria, come si evince dalla situazione dell’indebitamento, che, per quanto molto basso in valori assoluti (35,2 miliardi a giugno 2020), sta letteralmente strangolando moltissimi enti locali, in particolare i più piccoli.
In media, l’onere complessivo del debito raggiunge il 10% delle spese correnti comunali, ma, se consideriamo gli enti fino a 10 mila abitanti, sono 2.130 (30%) i Comuni che registrano un onere complessivo del debito superiore al 12% della spesa corrente; e, di questi, 727 enti (10%) superano un’incidenza del 18%.
Già, perché non tutti sanno che, mentre lo Stato si finanzia con tassi intorno all’1%, il tasso medio degli interessi pagati sui mutui dagli enti locali è intorno al 4,5%, con l’enorme paradosso che tre quarti di questi sono detenuti da Cassa Depositi e Prestiti (l’81% del cui capitale è in mano al Ministero dell’Economia e delle Finanze).
In poche parole, siamo di fronte a uno Stato che, dopo decenni di espropriazione degli enti locali, riveste nei loro confronti anche i panni dell’usuraio.
Eppure, ad un certo punto, le cose sembravano finalmente avviarsi a cambiamento: il 30 dicembre 2019, l’allora governo Conte approvò il decreto Milleproroghe, con all’interno l’art. 39, che prevedeva l’accollo da parte dello Stato dei mutui dei Comuni allo scopo di ricontrattarne una drastica riduzione dei tassi di interesse, con un risparmio ipotizzato per gli enti locali intorno ad 1 miliardo/anno.
La norma coinvolgeva tutti i mutui vigenti alla data del 30 giugno 2019, con scadenza successiva al 31 dicembre 2024, e con un debito residuo superiore a 50 mila euro o di valore inferiore nei casi di enti con un’incidenza degli oneri complessivi per rimborso prestiti o interessi sulla spesa corrente media del triennio 2016-2018 superiore all’8%.
Nonostante il percorso ipotizzato prevedesse un iter molto celere, si è dovuto aspettare un anno (gennaio 2020) per avere il primo, ancora generico, decreto attuativo, mentre è solo nel gennaio di quest’anno (due anni dopo!) che è stata istituita l’Unità di Coordinamento per la riduzione dell’onere del debito degli enti locali, primo passaggio per l’avvio dell’iter, dei cui tempi successivi non è dato sapere.
La prossima tornata elettorale si svolgerà di conseguenza senza nessuna novità su questo fronte e con i Comuni in difficoltà finanziarie ancor più amplificate dalla pandemia in corso.
C’è qualcuno che vuole aprire una discussione pubblica su questa situazione in tutte le città e i Comuni che andranno al voto? O anche questa volta dovremo assistere al doppio spettacolo della promessa di ricchi premi e cotillon da una parte e del deprimente voto “utile” dall’altra?